Si può fare poesia sui giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 senza retorica, senza schemi pregiudiziali e ideologici, senza essere accecati dalle passioni di parte (sine ira et studio), senza imbastire postumi processi, guardando soltanto alla materia umana, al potente dramma personale e storico che si abbatté sui vinti? Ci ha provato con risultati, a nostro avviso, lodevoli e convincenti Alfonso Indelicato con un poemetto La libertà (Tabula Fati, 2015, pp. 63). Come scrive l’autore nella introduzione «Si può pensare che quando un regime politico cade in modo cruento, certi episodi rientrino nella natura delle cose. Ma credo che il clima di risentimenti a lungo covati e subitamente esplosi non possano giustificare le efferatezze compiute nei confronti di uomini inermi e (come nei casi che racconto) sostanzialmente innocenti.»
Il poemetto, o meglio, la narrazione in versi, ha un andamento teatrale e non può che aprirsi con Lui, con un Benito Mussolini colto nella sua dolente umanità in quel cortile del palazzo della prefettura a Milano, il 25 aprile alle ore 19,30:

«Il cielo è uno scuro cristallo
e l’aria fredda sferza
le guance che un’ombra di barba
imbruna.
Ti riempie l’animo quel cielo
di vaghi palpiti, umbratili sentori
di qualcosa che avvenne, chissà dove, e non è più.
Forse dei cieli azzurri di Romagna
delle pozze sparse lungo i fossi
dell’aspre strade di campagna,
colme d’azzurro anch’esse,
del profumo dei fiori, lieve
ne l’aria lavata appena dalla pioggia
che ti sfiorava allora il viso magro,
i grandi occhi febbrili.»
L’onda dei ricordi luminosi si amalgama col presente oscuro, di lutti e di morte
annunciata, per poi cedere la parola allo stesso duce:
«Ecco, mi fanno ressa intorno strepitando

tutti in maniera diversa vocianti, fedeli temerari pazzi
dalle troppe veglie estenuati;
ma a me tocca,
anche in quest’ultimo atto,
ancora una volta, a me tocca…
Ebbene, forza!
Forza… ma sono uomini
questi vocianti,
questi miei ultimi rimasti,
od ombre, fantasmi?
Questo mi resta
tumulto di dubbiosi animi
dei fasti di vent’anni…
Ed io oramai che sono?
Un’ombra, un uomo?
Avanti, ora a me tocca…
Restare, partire?»

La rassegna prosegue con le circostanze della cattura e della fucilazione, il 28 aprile, in piazzale Loreto di Achille Starace, che si mostra coraggioso e strafottente. E poi, il 29 aprile, con l’assassinio del poeta cieco ed eroe di guerra, Carlo Borsani:
«L’eroe Borsani cieco
dalla marmaglia è tratto
lungo viale Romagna
fino a piazzale Susa.
Non piangeva egli, urlava:
– Perché mi uccidete? –
Non era una domanda, era un’accusa,
e significava:
Nulla feci di male
fuor che amare l’Italia,
la cara sposa,
l’onore di soldato,
i miei sogni,

i libri, le poesie, e voi m’ammazzate!
(…) Giacque infine sull’erba
della città ferita
pallido e biondo,
riverso, rivolto al cielo
l’occhio azzurro sbendato aperto vacuo.
E poi raccolto come un fantoccio
fu il corpo stroncato,
infisso in un sudicio bidone
sul carro del pattume,
trascinato d’intorno
per strade e piazze
per pubblico scherno
con al collo un cartello:
“ex medaglia d’oro”:
credevano fargli uno sberleffo
e invece senza saperlo
gli rendevano onore
come coloro che su un’altra Fronte
posero secoli or sono
una simile insegna».
Seguono due figure adamantine di combattenti, il maggiore Adriano Visconti e il tenente Valerio Stefanini, che dopo aver affrontato con sprezzo del pericolo la soverchiante aviazione angloamericana per difendere le terre del Nord, firmano la resa col comando partigiano, ignari che sarebbero stati traditi e colpiti a morte.
La narrazione si chiude con la rievocazione del brutale assassinio degli attori Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, il 30 aprile alle ore 23:
«Ora finalmente sono distesi esanimi
Luisa con gli occhi sbarrati
e la bocca semiaperta
quale carnosa orchidea,
Osvaldo che con gli occhi chiusi
ancora le cinge il fianco.

E poiché l’altra sua mano
sembra stringere qualcosa,
(un che di azzurro spunta da essa)
ecco uno degli omicidi
aprire per curiosità il pugno serrato
e trarne, sorpresa… una scarpina
di bimbo appena nato.»
Non si tratta, come può evincersi da queste brevi citazioni, di una mera rievocazione storica. Certamente storia e poesia sono sorelle, perché entrambe muovono dalla vita di ciascun uomo che, come insegnava Ortega y Gasset, è sempre un drammatico scontro col mondo. «Tutta la storia è un rivivere ciò che sembrava morto», scriveva il filosofo spagnolo in Una interpretazione della storia universale, ed anche la poesia è in fondo una ricerca del tempo perduto. Ciò che la distingue dalla storia è il suo modo di
portare in primo piano l’emozione. Alfonso Indelicato ha saputo dare ai vinti voce e dignità. Ed umana pietà.

Sandro Marano