La passeggiata dei poeti
Il tema del viaggio è uno degli archetipi ricorrenti nella letteratura di tutti i tempi. Affine ad esso è quello della passeggiata, la dolce sorella del viaggio. La passeggiata indica un andare a piedi per diletto, per svago, senza fretta, e implica un tragitto più o meno breve che consta generalmente di un’andata e di un ritorno.
E subito incontriamo un capolavoro, quella che, a nostro avviso, per la squisita musicalità dei suoi versi, per le sue suggestioni e la sua struttura poetica è da considerarsi senz’altro tra le più belle poesie del Novecento italiano: La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio. La poesia, di cui riportiamo la prima delle quattro strofe di cui è composta, fa parte dell’Alcyone, l’opera della maturità poetica di Gabriele D’Annunzio pubblicata nel 1903. Il poeta immagina di trovarsi, in una giornata d’estate, con la donna amata, alla quale dà il nome di Ermione, in una pineta della Versilia e di essere sorpreso dalla pioggia. Qui in una sorta di ebbrezza i due amanti si immedesimano piano piano nella natura fino a perdere la propria individualità. I due motivi fondamentali che la lirica svolge sono il sentimento panico della natura e l’amore-gioco attraversato da una punta di malinconia (“la favola bella” che illude gli amanti). Una tecnica magistrale e un ritmo incalzante costruito su 128 versi liberi brevissimi, insieme a frequenti e sparse rime ed assonanze, rende sapientemente le sensazioni prodotte dalla pioggia che cade. A poco a poco alle parole umane si sostituiscono i suoni della natura e la poesia «esprime quell’adesione pagana e sensuale alla vita tipica non solo dell’uomo, ma anche dell’epoca» ((Anna Mattei).
Con l’Alcyone il Novecento si apre, poeticamente, nel segno della grazia e d’una possibile agognata armonia con la natura. Purtroppo questo stato non durerà a lungo. Dietro l’angolo preme già quell’insana volontà di potenza – diagnosticata da Nietzsche – che si manifesterà nelle guerre mondiali e nel successivo predominio della tecnica e dell’economia di cui ancor oggi soffriamo.
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Questi sono i primi venti e gli ultimi due versi dei centoquarantatrè di cui consta de La passeggiata di Aldo Palazzeschi, che fa parte della raccolta in versi liberi L’incendiario (nell’edizione del 1913).
La tecnica tipicamente pittorica del collage viene qui applicata a un componimento letterario per seguire il ritmo convulsivo della città moderna. Il poeta attraversa la città guardandola «con sguardo sornione, ironico» (Umberto Fiori), ma aggiungiamo anche con passo futurista: negozi, manifesti pubblicitari, titoli di giornali, strilloni, numeri civici. Le immagini vengono accostate per analogia o per contrasto e vengono offerte rapidamente al lettore in una girandola:
Il poeta apparentemente sembra affascinato dallo svelarsi della città, dal progresso e dalla velocità, ma nell’accostamento degli enunciati, mai del tutto casuale, si può scorgere una sottile ironia, un certo disappunto:
Ed ancora:
La città peraltro mostra anche il suo volto animoso e aggressivo:
La rapidità con cui scorrono le immagini come in un film – arte che cominciava allora non a caso i primi passi – insieme al cinismo con cui tutti i fatti sono messi sullo stesso piano finisce per vanificare i drammi:
I due versi di chiusura sono volutamente ambigui:
Il poeta ci esorta a tornare indietro. Dove? Nello spazio, all’inizio della passeggiata, o piuttosto nel tempo, a ritmi di vita più lenti e più umani?
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Questa poesia di Dino Campana, uno dei pochi poeti “maledetti” italiani, intitolata non a caso in francese La petite promenade du poéte, fa parte della sezione Notturni dei Canti orfici, «il libro più controverso e discusso del nostro Novecento» (Umberto Fiori), stampato nel 1914.
Sono note le sofferte vicende della pubblicazione di questa raccolta, il cui manoscritto originario fu smarrito durante un trasloco da Ardengo Soffici, cui era stato dato in lettura e che, peraltro, ne colse subito il valore poetico, dal momento che in una magnifica pagina dei Ricordi di vita artistica e letteraria scrisse: «Lessi il libro da cima a fondo riportandone l’impressione di una aperta luce solare».
Il titolo dell’opera di Campana fa riferimento ai Canti di Leopardi, di cui il poeta di Marradi si sentiva erede, mentre l’aggettivo orfico esprime la natura divina e misteriosa della poesia.
La passeggiata di Campana, dal ritmo facile e popolaresco che viene reso, tecnicamente, dall’uso degli ottonari e la fa assomigliare ad una filastrocca, esprime una disperata solitudine e quella fuga dalle convenzioni borghesi, dal proprio tempo e da sé stesso, che il fascino della notte a mala pena attenua.
Quella di Campana può considerarsi una vera e propria confessione, perché riesce ad esprimere, per dirla con Maria Zambrano, «le viscere dolenti e vivide, la vita nella sua dispersione e oscurità». La confessione, precisa la filosofa spagnola, «comincia sempre con una fuga da sé. Parte da una situazione di disperazione. Il suo presupposto è quello di ogni partenza: una speranza e una disperazione, la disperazione di ciò che si è e la speranza che appaia qualcosa che ancora non si possiede» (in La confessione come genere letterario).
Ma la Chimera del poeta di Marradi non conduce alla fine ad alcuna speranza, ad alcuna verità condivisa, ad alcun paradiso ritrovato. Con Campana la disarmonia del vivere e l’inquietudine, temi letterari ed esistenziali tipici del Novecento, fanno capolino nella poesia italiana.
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L’ironia accompagna la passeggiata di Ardengo Soffici con l’amico poeta Palazzeschi fin dai primi versi della poesia intitolata Via che è tratta da Intermezzo, un piccolo gruppo di liriche di poco successive a Bif&ZF + 18. Simultaneità. Chimismi lirici del 1915, la raccolta che insieme a L’incendiario (1913) di Aldo Palazzeschi, a Città veloce (1919) di Luciano Folgore e ad alcune liriche di F. T. Marinetti e di Emilio Notte rappresenta forse quanto di più poeticamente valido produsse il Futurismo.
Via segna il passaggio dalla poetica futurista a una più tradizionale ed è strutturata in quartine di ottonari e novenari con rime baciate nel 2° e 3° verso. È ormai lontano il tempo dell’esaltazione futurista del poeta per la città moderna, in cui è bello «nuotare come un pesce innamorato» e dove «il clamore dell’elettricità, del gas, dell’acetilene e delle altre luci fiorite nelle vetrine» e «le automobili venute di per tutto» (Crocicchio) hanno ormai soppiantato la natura. I valori che il contesto urbano ora suggerisce sono «agiatezza e onorabilità». Le rassicuranti scene di vita quotidiana sono guardate con un pizzico di ironica condiscendenza.
Tuttavia, risvegliato da una canzonetta, il ricordo d’amori giovanili introduce un senso di malinconia che contrasta col decoro borghese. È passata invano la giovinezza? Grazie al suo intatto vitalismo Soffici riesce ancora a strapparci un sorriso. Ironia e malinconia però accompagnano ormai la passeggiata del poeta.
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Inizia così Serata romana di Pier Paolo Pasolini la più riuscita ed intensa, con i suoi cinquantacinque versi sciolti e irregolari, delle liriche della raccolta La religione del mio tempo, pubblicata nel 1961. Il poeta comincia col rappresentare se stesso, mentre va in direzione opposta a quella della gente comune che rincasa.
La sua passeggiata nelle borgate romane è in verità una discesa agli inferi, nei bassifondi sociali, tra prostitute e vecchi ubriachi, dove «il fetore si mescola all’ebbrezza / della vita che non è vita», nel tentativo, che si rivela illusorio, di cogliere una natura umana intatta, astorica, genuina, identificata nel sottoproletariato e nelle sue «impure tracce umane», e nei suoi «bassi diletti innocenti».
Nella lirica emerge in modo dolente il dato autobiografico:
Ma il poeta riesce pure a cogliere, poco più oltre, nel contrasto palese tra i «caldi platani» su cui «la notte teneramente fiata» e i «plumbei, piatti» attici dei «caseggiati giallastri», la spia di un degrado, l’attestazione di quella “mutazione antropologica” che egli illustrerà incisivamente e magistralmente nei suoi Scritti corsari del 1975.
Di fronte al degrado delle periferie, cagionato da uno sviluppo scambiato per progresso, la poesia certamente non può far finta di nulla. Ed allora non può che farsi impegno civile e confessione.
Il titolo della raccolta, La religione del mio tempo, suona ironico: non dovrebbero le verità, che le religioni proclamano, non bagnarsi alle sorgenti del tempo?
Pasolini spiegava così la genesi della sua raccolta in un articolo apparso su Vie Nuove: «la sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l’azione politica si attenua o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell’evasione, del sogno o una insorgenza moralistica».
Il poeta riesce a cogliere nei suoi versi, in pieno boom economico, i prodromi di quella crisi esistenziale e sociale che sarebbe esplosa di lì a poco, sul finire degli anni ’60 del Novecento. La poesia di Pasolini anticipa potentemente l’inquietudine, l’avvilimento e il senso irrimediabile di disfatta dell’uomo di fine Novecento.
Sandro Marano