Maria Zambrano: gli orienti che non si vedono ma si ascoltano
Sant’Agostino come cerniera tra il sacro e il mito. Tra questi intagli l’opera di Seneca resta fondamento di un viaggio tra la Croce e San Paolo. Una ontologia che penetra la metafisica dell’anima. “La nostra anima è attraversata da sedimenti di secoli, le radici sono più grandi dei rami che vedono la luce”. Sedimenti di secoli. Maria Zambrano è questa filosofia che racconta non ciò che dell’Occidente ha raccolto ma degli Orienti che non si vedono ma si ascoltano. La filosofia del metodo o il metodo della filosofia. Un dualismo con il quale spesso si è confrontata Maria Zambrano. Lasciando l’imperfetto nella provvisorietà. Il pensiero della Zambrano, non accettando la logica, non ha mai inteso la filosofia come accademia o come dettato scientifico. L’aurora è una metafora che trova, in ogni notte del pensiero, la luce che lega la speranza alla grazia. Il tempo e la percezione della morte sono singolari viaggi dentro la metafisica dell’anima.
Il pensiero è sempre oltre la storia. Bisogna affidarsi alla memoria per non morire di nostalgia.
Siamo greci o profondamente legati alla grecità? In «L’agonia dell’Europa» Maria Zambrano scrisse: «Il greco non ha avuto vocazione per la vita; l’ha avuta per la ragione, per la bellezza, per cose che raggiungerebbero il loro essere soltanto in un luogo che non è né la vita né la morte, ma l’immortalità. E perciò i greci scoprirono l’immortalità, che in loro ha più chiarezza e forma che in ogni altro luogo. E questa scoperta e rafforzamento rivela il loro genio positivo e creatore: provando orrore tanto per la vita quanto per la morte – ecco cos’è il pessimismo – essi scoprirono l’immortalità, una sorta di retromondo, scoprirono l’essere, un essere che è in certo modo contrario alla vita. Tutti i popoli o culture vitalistici rifiutarono l’idea di essere, e non avrebbero mai potuto scoprirla; perché l’ essere è al di là della vita e della morte, come la ragione, come la pura bellezza della quale i loro marmi ci inviano il riflesso».
La grecità profonda è in quell’abitare il tempo della nostalgia che attraversa tutte le memorie indelebili che sono il viaggio che resta. Tutto ciò che resta è tutto ciò che non si lascia dimenticare. Non si dimentica ciò che non vogliamo dimenticare. Ma ciò che non cede all’oblio dentro di noi. Involontariamente.
La grecità è anche questo destino profondo. Un destino che sconvolge e coinvolge come i poeti tracciano silenzi solitudini e eredità. L’esilio e la fine sono viatico di esperienza tra lo sguardo mortale e l’eternità afferrata come metafora nel diabolico che domina nella mortalità dei corpi.
Si può essere assenti e questa assenza è un distacco inevitabile che lega il patire al dolore, la lontananza all’indifferenza. Bisogna uscire dalla differenza dell’indifferente per spaginare il sogno dalla realtà. Si resta reali sino alla morte del reale. Poi avverrà altro. Cosa sarà mai? «Il sapere delle cose della vita è frutto di lunghi patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante di lucida visione. Tale sapere si rivela dietro un’evento estremo, un fatto assoluto, come la morte di qualcuno, la malattia o la perdita di un amore».
Maria Zambrano recupera la dissolvenza nella filosofia e fa del poetico il mito della assidua capacità della volontà legata al mistero. Ma il viaggio può compiersi lungo due strade. L’indifferenza e la pazienza senza mai dimenticare che il gioco della vita e della morte è una contraddizione inevitabile. L’indifferenza educa a non morire da morto. A vivere distante nelle distanze e nella pazienza. Accogliere la maschera è specchiarsi nell’assurdo e nell’inevitabile soprattutto quando l’esilio diventa il pensiero illuminante del teatro che è in noi.
Poesia, filosofia e logos. Tre principi ma una svolta unica nell’idea zambraniana. Leggo: «L’idea di natura e il logos si corrispondono, si rivelano e si abbandonano al tempo stesso. Visione oggettiva e parola sono lo stesso in ordini diversi. E in virtù di ciò l’ineffabile, mai completamente sconfitto nella poesia, farà la sua comparsa, come se il silenzio, schiacciato dalla parola, da essa spinto verso il mondo delle ombre, si affacciasse chiedendo di essere portato alla luce, di vivere la vita dell’espressione. Ma l’espressione dell’inesprimibile non può darsi se non istituendo una relazione, la relazione che la maschera ermetica e la maschera sacra, configura: la partecipazione».
La partecipazione non dovrebbe renderci indifferenti. Ma dobbiamo esserlo per restituire all’esilio la libertà di strappare il velo al limite – confine. Maria Zambrano è oltre se l’oltre è conoscere le persuasione e la conoscenza del patire. La visione del patire resta fondamentale nella vita di Maria Zambrano. Una filosofa che dedica al mito l’aurora e il silenzio.
Siamo greci o soltanto legati alla grecità? Maria Zambrano unisce l’essere greci con l’essere legati ad una grecità profonda abitando il pensiero del Mediterraneo. Il Mediterraneo è il tempo della memoria ma è soprattutto il «pensiero divino» in un «chiaro di bosco» che è il necessario dell’inevitabile del mistero nel mito. Persi nel mistero e nel mistero ritrovati. Un insegnamento che giunge dalla poesia, dal poeta. <<poeta è perso nella luce, errante nella bellezza, povero per eccesso, folle per troppa ragione, peccatore in stato di grazia>>.
Maria Zambrano è nata il 1904 a Vélez – Malaga ed è morta a Madrid, dopo un esilio di 45 anni, a Madrid nel 1991. Un esilio diventato viaggio vissuto cercando nel sottosuolo dei demoni la filosofia nella poesia e la dissolvenza come eterno infinito. Di eterni dissolti e diventati infiniti sono fatti i nostri passi. Siamo eredi ma anche trascrittori di anime vaganti nel consapevole pensiero inconsapevole. Siamo greci e non basta. Siamo profondamente omerici e non basta. Siamo l’ulissismo permanente. Siamo dentro quell’ulissismo che è un raccontare permanente l’isola e l’esilio. Non restiamo abitatori della storia. Siamo invece abitati dal tempo. Abitatori della storia evitabile ma mai di un tempo inevitabile.
Pierfranco Bruni