L’estetica della sensualità buzzatiana nel romanzo “Un amore”.
Per Antonio Dorigo, protagonista del romanzo di Dino Buzzati “Un amore”, il mondo della case chiuse ha il valore di un frutto proibito. Un mondo avventuroso nel quale calarsi, di tanto in tanto, per contrastare le noie alienanti della società borghese. Appare irresistibilmente attratto dalla giovinezza, ma anche da tutto ciò che è popolare. Laide rappresenta non solo il proletariato, ma anche i miti degli anni Sessanta in cui le classi incolte si stavano gettando a capofitto (le auto veloci, i night club, il consumismo montante). Quei miti di cui Buzzati-Dorigo avverte, come una sorta di fascino dell’orrido, tutta la brutale energia.
Antonio è combattuto: da un lato sente istintivamente che lui e Laide sono predestinati, dall’altro cerca di respingere questa “inconsapevole consapevolezza” rivolgendo le sue attenzioni su donne di “buona famiglia”, come Dede che ha conosciuto a Cortina, oppure come Luisa (personaggio che compare solo nel film).
La trasposizione filmica del romanzo (1965, per la regia di Vernuccio) ci mostra l’ambiente familiare borghese di Dorigo in cui è l’anziana madre a muovere i fili della sua esistenza. Dorigo vive quell’ambiente come protezione ma anche come “gabbia”. È infatti nella casa della signora Ermelina, e soprattutto nei suoi incontri con Laide, che può finalmente essere se stesso, senza timore di essere giudicato.
Dopo il primo incontro con Laide, Dorigo inizia a pensare sempre più spesso a lei. È intenzionato a conoscerla anche al di là della casa della signora Ermelina. Una intenzione che riaffiora con decisione nella versione cinematografica. Infatti nel film si reca appositamente al Teatro alla Scala per assistere alle prove del balletto. Nella versione originale, invece, incontra Laide per caso in quanto anche lui è coinvolto, in qualità di scenografo, in quella stessa rappresentazione teatrale.
Ed è guardando le ballerine, che si accingono a provare lo spettacolo, che si lascia andare a una considerazione di suggestiva profondità psicologica in direzione di una estetica della sensualità di raffinata bellezza.
«Vedendole così vicine, prese dall’impegno del lavoro, senza trucchi né code di pavone, così semplici e disadorne, nude più che se fossero nude, Dorigo allora capì improvvisamente il loro segreto, il perché da immemorabili secoli le ballerine fossero il simbolo stesso della femmina, della carne, dell’amore. Il ballo era – egli capì – un meraviglioso simbolo dell’atto sessuale. La regola, la disciplina, la ferrea e spesso crudele imposizione, alle membra, di movimenti difficili e dolorosi, il costringere quei giovani corpi verginali a far vedere le più riposte prospettive in posizioni estremamente tese e aperte, la liberazione delle gambe, del torso, delle braccia nelle loro massime disponibilità: tutto questo era per la soddisfazione del maschio. A cui le ballerine, con impeto, con patimento, con sudore, si abbandonavano. E la bellezza stava appunto in questo appassionato e spudorato abbandono. Senza che loro ne avessero il più lontano sospetto, era tutta una ostentazione, un’offerta, un invito al congiungimento carnale. Quelle bocche socchiuse, quelle bianche e tenere ascelle spalancate, quelle gambe divaricate allo spasimo, quel protendere avanti il petto in atto di olocausto, quasi gettandosi fra le braccia ardenti di un invisibile e insaziabile dio» (da “Un amore” di Dino Buzzati).
Stefania Romito