I poveri. Veri.
Tantissime volte al Natale viene associato il tema della povertà. Il Bambinello deposto nella mangiatoia e la coppia, Giuseppe e Maria, che non viene accolta, sono la rappresentazione plastica di cosa sia, nel nostro comune sentire ed agli occhi del mondo, la povertà. Dio ha scelto di diventare uomo, di mettere la sua tenda tra noi, rinunciando alla ricchezza e agli agi che pur avrebbe potuto avere. Del resto l’apostolo delle Genti, san Paolo, nella lettera ai Filippesi così dice: “Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. 2, 6-8). Questo spogliarsi di Dio è facilmente considerato come un impoverirsi.
Pensiamo quindi di aver ben compreso cosa sia la povertà e questo ci spinge a non indagare oltre, esattamente come facciamo per le cose scontate. Eppure, una lettura più profonda del Vangelo ci potrebbe sorprendere anche su questo tema. Sappiamo bene chi sono i poveri, i bisognosi? Li sappiamo riconoscere?
Certamente la “povertà” ha in sé una connotazione negativa e tutti ci prodighiamo per debellarla: è privazione o mancanza di qualcosa di vitale in assenza del quale non si può vivere o il vivere diventa un tormento. È povero chi è senza casa, chi non ha denaro, chi non ha di che mangiare. Tutti i poveri soffrono i morsi della fame e dello stato di necessità nella propria carne. Ma è veramente questa la povertà richiamata continuamente nel Vangelo? Al povero manca il necessario per vivere, ma di cosa necessita veramente l’uomo per vivere? La frase “Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Deuteronomio 8,3; Mt 4, 4 e Lc 4, 4) è una frase di circostanza o un’affermazione di una realtà a noi nascosta? E se nascosta Cristo ce l’ha rivelata?
Da una lettura della Sacra Scrittura sembrerebbe che la povertà non fosse presente nel Paradiso terrestre dove, al contrario, vi era abbondanza di tutto e dove all’uomo non mancava nulla. È evidente quindi che il peccato, la disobbedienza, la sovversione dell’ordine, del quale non è l’uomo il fautore, hanno introdotto nel mondo, insieme alla morte, anche la povertà, il dolore, l’angoscia. A tal proposito Gesù, relativamente alla sua missione, afferma «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10) volendo riportare l’Umanità al suo fine originario dal quale è stata distratta a causa del distorto utilizzo della libertà da parte dell’uomo.
L’ “abbondanza” della vita è certamente l’eliminazione di ogni stato di povertà e di bisogno; su questo penso non ci siano dubbi. Come però arrivare, o meglio, come tornare alla vita in abbondanza? È Gesù stesso che ce lo spiega e ce lo insegna con la sua vita, con il suo esempio, con le sue parole. Il Maestro principalmente ci insegna a vivere in maniera diametralmente opposta a come ce la propone il mondo, a come l’abbiamo progettata noi. Per entrare nel concreto basterebbe rileggere il discorso delle Beatitudini che comincia proprio parlando dei poveri: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il Regno dei Cieli”. Ecco dunque che Cristo sovverte quell’ordine che l’uomo decaduto ha dato alle cose, dando alla povertà nello spirito una dignità regale e ponendola al vertice del suo Regno. Ricordate quando il Creatore poneva tutte le creature davanti ad Adamo affinché questi le desse un nome? Ecco, qui è il nuovo Adamo a dare il nome, e cioè il senso e l’ordine, non tanto a cose e creature quanto al suo stesso ruolo nell’ambito della creazione che il vecchio Adamo ha travisato e mistificato.
È necessario partire quindi dalla povertà in spirito (πτωχοί τω πνεύματι) e distinguerla dalla povertà nella materia che, agli occhi di Gesù sembra non aver cittadinanza nel suo Regno. Chi sono dunque questi poveri in spirito dei quali è il Regno dei Cieli? Certamente non sono i poveri che il mondo considera tali e dei quali ci siamo interessati finora. Non sono i poveri che incontriamo agli angoli delle strade, non sono gli sfrattati, non sono gli immigrati. I poveri in spirito sono coloro che prendono coscienza della propria condizione ascoltando la Parola di Dio, la riconoscono e la accettano come riconoscono ed accettano la grandezza di Dio. Ricordate Adamo ed Eva nel paradiso terrestre di fronte a Dio? Erano nudi, nel senso che accettavano la loro condizione e non se ne vergognavano affatto. Solo dopo il peccato hanno camuffato la propria immagine rivestendosi di pelli di animali, rigettando la verità, la propria nudità di fronte a Dio, e inseguendo l’idea che si erano fatti di sé stessi. Dice san Giovanni Crisostomo che Gesù li chiama poveri in spirito sottolineando che spirito non significa anima ma volontà e che Cristo ha utilizzato il termine poveri e non umili perché il primo è più intenso indicando coloro che rispettano i comandamenti.
Dunque, i poveri in spirito, i cittadini del Regno di Dio sono gli umili e cioè coloro che conoscono e accettano la loro giusta collocazione nella creazione e nel disegno di Dio, in contrapposizione all’arroganza di Adamo ed Eva. I poveri in spirito hanno fame di Dio, ripongono in Lui la ragione e la speranza di vita, non vogliono sostituirsi a Lui.
In più di un passo evangelico in antitesi ad un povero in spirito troviamo la figura di un ricco in spirito. Soccorre l’esempio del pubblicano e del fariseo: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,10-14). Il primo non affida la sua salvezza a di Dio, ma quasi in un contratto sinallagmatico, afferma con orgoglio la propria rettitudine rispetto alla Legge e poi, ergendosi a giudice, si arroga il diritto di accusare e condannare il secondo che, al contrario, manifesta la propria nudità accusandosi peccatore e chiedendo misericordia. Questa parabola, per il tema della povertà che qui si vuole trattare, e poi ancor più chiara alla luce di un altro evento narrato nel Vangelo, quello di quel tale che corse incontro a Gesù “e gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?»… Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni” (Mc 10, 17-22). Ecco chi sono i poveri in spirito e chi invece gli autosufficienti, coloro che anziché essere, o meglio diventare, preferiscono fare restando ancorati alle proprie posizioni alle proprie certezze, e per i quali il rapporto con Dio diventa un rapporto quasi contrattuale: io mi attengo ai comandamenti e Tu mi dai quanto promesso, o ancora, faccio ciò che mi dici perché non si sa mai, ma non cambio… Da una parte chi confida nelle proprie opere, nel proprio fare e dall’altro invece chi si mette a nudo con propri limiti affidandosi a Dio, da una parte un rapporto contrattuale alla pari dall’altro un rapporto filiale, da una parte il fare e dall’altra il cambiare il proprio essere.
Ma allora i poveri, i bisognosi? Restando nel Vangelo, nei suoi insegnamenti Gesù non appare affatto preoccupato per la povertà materiale, piuttosto è preoccupato invece per coloro che sono ricchi in spirito ingannati dal falso senso di autosufficienza e sicurezza che la ricchezza materiale di questo mondo offre. E infatti, è Lui stesso a dire: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano» (Lc. 5, 32). Dunque è venuto per tutti noi che cadiamo nelle illusioni di questo mondo, riponendo fiducia nelle ricchezze e nelle nostre forze: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12, 19-20). In altre parti del Vangelo il monito è ancora più esplicito: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. (Mt 6, 19-21). Anche nel brano del Vangelo richiamato prima, Gesù invita quella persona a vendere a tutto e dare il ricavato ai poveri ma ciò, secondo gli occhi del mondo, non sarebbe forse creare un nuovo povero?
Queste frasi ci spiazzano, e ci manifestano che l’insegnamento di Gesù non è un insegnamento di economia politica per risollevare i ceti meno abbienti. Il pericolo dal quale fuggire non è la povertà materiale. In realtà è povero colui che si affanna inutilmente ad accumulare tesori in questa vita confidando in questi. Povero è quel tipo che non prestava attenzione alla fame di Lazzaro e dopo essere morto, bruciando tra le fiamme dell’inferno, cominciò a pregare Abramo perché inviasse il mendicante per bagnargli le labbra… (Lc 16 16, 19-31)
Per concludere questa brevissima riflessione sulla povertà non possiamo però non chiederci come il Vangelo consideri i poveri in materia. Questi nel Vangelo hanno certamente un ruolo salvifico: sono strumento e motivo di salvezza per tutti.
Gli affamati, i diseredati, i senza fissa dimora, i profughi, sono la Parola di Dio, il Logos, il Verbo che sollecita tutti noi al soccorso, all’aiuto ma soprattutto alla compassione ed alla condivisione. Che sia la Parola di Dio che ci sollecita continuamente in tal senso, in questo mondo che misura tutto col denaro, che nega la solidarietà se non ben retribuita, ce lo dice Gesù stesso, il Logos stesso, quando rivolgendosi a Giuda iscariota gli dice: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mc 14, 7); se poi a questa affermazione accostiamo l’altra: “io sono sempre con voi fino alla fine dei tempi” (Mc 28,20) e l’altra ancora: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi…” (Mt 25, 35 – 36), lascio al lettore ogni conclusione su chi siano i poveri nella materia.
Con il progresso umano, grazie anche al cristianesimo, che ha fortemente indirizzato lo sviluppo delle comunità sulla strada della solidarietà, la società si è andata sempre più organizzando ragion per cui Stato, Regioni, Comuni, associazioni di volontariato e la Chiesa stessa, con le sue strutture caritatevoli, sono diventate una grande conquista sociale per il soccorso agli ultimi, ma tutto questo movimento rischia di distrarre ed anestetizzare il coinvolgimento personale di ciascuno di noi in questa attività che deve essere principalmente di compassione e condivisione. Non dobbiamo nascondere il fatto che, vedendo una famiglia di sfrattati, o i mendicanti (quelli veri) per le strade, o le vittime della malasanità o della giustizia, il nostro primo pensiero non sia quello della condivisione quanto quello della critica, sacrosanta, del perché quella o quell’altra Istituzione non sia intervenuta. In altri termini, il pullulare di organizzazioni umanitarie o di supporto sociale alla fine finiscono per giustificare non un nostro mancato intervento diretto ma un nostro coinvolgimento personale, esistenziale, che è cosa diversa. Il rischio è quello di rientrare in quella categoria di persone che, alla fine, avendo pagato le decime ritiene di aver assolto ad ogni obbligo sociale: ho pagato le tasse ora sia lo Stato a provvedere, altrimenti perché pago le tasse?
Ora che la pletora di “poveri” appare ancor più estesa di prima, nei confronti di chi dobbiamo esercitare la carità? Certamente nei confronti del vicino necessitante, e tanto perché in questo rapporto di fratellanza, i poveri e bisognevoli di raccogliere i famosi tesori nei cieli siamo proprio noi. Ma non dimentichiamo che tra i poveri e bisognevoli d’aiuto sono anche coloro i quali pensano di godersi la vita correndo dietro le illusioni di questo mondo che mostra come allettante e appagante la ricchezza, il denaro, il potere, il sesso. Per questo genere di poveri è venuto Gesù: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18).
Anche noi siamo poveri e meritevoli di soccorso, quando il luccichio di questo mondo suscita quasi una invidia nei confronti di chi, anche lecitamente, vive una vita agiata, spensierata, chi non si fa mancare nulla, cene, viaggi, automobili, ville.
Noi sedicenti cristiani, e soprattutto noi cresimati, siamo responsabili del nostro prossimo, anche del ricco e del potente, che si perde in questa notte. Dovremmo essere testimoni della Luce. E domani ci sarà chiesto conto come a Caino: dov’è tuo fratello? Perché non è qui?
Ancor prima della predicazione di Cristo, tre persone erano riuscite a sfuggire alle illusioni di questo mondo ed hanno potuto vedere in un bambino adagiato in una mangiatoia per animali, oltre che la sua Umanità, anche la sua Divinità e la Regalità. Non dobbiamo quindi dimenticare che il Bambinello nella mangiatoia è il Re dei Cieli, altro che poverello! Come pure il patibolo della Croce è il Trono del Re, del nostro Salvatore. Ecco l’apocalisse, la rivelazione, la manifestazione dei cieli nuovi e terre nuove, l’Economia che Dio ha stabilito per la nostra salvezza, ecco cosa significa vivere con fede, guardare le cose, il mondo, il prossimo con occhi diversi, con gli occhi di Dio.
Paolo Scagliarini