La felicità e il senso dell’esserci

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Benedetto Croce nel Breviario di estetica (1913) nota con acume l’errore di coloro che considerano «infelice il tempo in cui non erano vie ferrate nè aviazione a vapore, laddove infelici non siamo se non con noi stessi in immaginazione, quando adusati ormai a tali comodi di vita, ci fingiamo trasportati in luogo in cui quei comodi non sarebbero e sarebbero invece i correlativi bisogni, nati con quei comodi».

La domanda se la nostra civiltà industrialmente avanzata ci renda più felici rispetto ad altre civiltà storicamente esistite non è affatto peregrina. L’esperienza quotidiana, la storia e la filosofia ci dimostrano che non è vero che siamo più felici rispetto ad altre civiltà tradizionali. Ci manca, per esserlo, un mito che ci dia forza, un’idea per cui lottare, insomma, un senso gratificante dell’esistenza. Al giorno d’oggi siamo storditi dalle tecnologie e dall’insano desiderio di consumare e possedere sempre più. È quel desiderio che Ovidio definiva «amor sceleratus habendi» (Metamorfosi, libro I, v. 131), il desiderio sciagurato di possedere, che caratterizza la quarta età del mondo, quella del ferro nella quale viviamo, e che segue quelle dell’oro, dell’argento e del bronzo.

La felicità, infatti, non dipende dalla quantità di beni e di bisogni ad essi correlati, non dipende dal numero di saponette che si consumano o di telefonini che si acquistano, dai barili  di petrolio che si bruciano o dal numero di case nuove che si costruiscono, che sono gli unici valori di cui tiene conto il PIL, trascurandone altri come la salute, i boschi, i giardini, la bellezza dei nostri paesaggi.

Il mito del re Mida fotografa la situazione dei nostri giorni. Secondo l’antico mito il re Mida ottenne che il dio Bacco esaudisse il suo desiderio di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ma ben presto dovette pentirsene. Così Ovidio nelle Metamorfosi ci descrive il momento in cui il re Mida si accorge che l’oro non può placare né la fame né la sete: «Sbigottito per quella singolare sciagura, miserabile in mezzo alla ricchezza, non ne può più di tutti quei tesori e detesta ciò che poco prima aveva sognato. La più grande abbondanza non può sedargli la fame, arida sete gli brucia la gola e, come si merita, è ossessionato e torturato dall’oro» (libro XI, vv. 127-130).  «L’antico re Mida – chiosa Alex Langer in uno dei suoi Colloqui di Dobbiaco 94 sul tema del benessere ecologico – ci appare come il vero patrono dei culti del progresso e dello sviluppo, l’attualissimo predecessore dei benefici della nostra civiltà». Abbiamo fame e sete di aria pulita, di cibo genuino, di boschi dove camminare e ritrovarci. Ci sentiamo poveri nell’opulenza.

Quel che davvero importa, e che la misura economica della vita non potrà mai darci, è dare un senso al proprio esserci nel mondo, sentirsi a casa nel mondo e parte di un destino, sapere qual è il proprio posto nel mondo. Possiamo ripetere col poeta americano Lee Masters: «Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio, è una barca che anela al mare eppure lo teme» (George Gray, in Antologia di Spoon River).

Sandro Marano