Santi armeni in Italia

Spesso ignoriamo che numerosi santi ricordati dalla nostra tradizione liturgica, e la cui memoria è pienamente perpetuata nelle città italiane, hanno origine Armena. Ad esempio a Lucca si venera San Davino, un giovane armeno lì morto nell’XI secolo mentre si recava in pellegrinaggio da Roma a Santiago De Compostela. A Mantova nello stesso periodo moriva un altro pellegrino armeno, Simeone, sin da subito adottato come patrono dalla medesima città. Anche per i santi Emiliano da Trevi e Libero da Ancona, la tradizione agiografica indica origini armene. Inoltre, tra i più noti e venerati santi del Centro Italia possiamo ricordare san Miniato, titolare di una basilica sulle colline fiorentine, la cui memoria è associata al titolo di Rex Erminiae.

Da sempre considerato d’origine armena è oggi di revisione storiografica da parte di taluni studiosi che mostrano dubbi sulla sua provenienza anche in assenza di una tradizione agiografica unitaria. Se casi simbolo della presenza armena in Italia dopo il XII secolo sono i cenobi di San Bartolomeo a Genova e San Matteo a Perugia le cui reliquie furono portate da monaci basiliani in fuga, di tutto il Pantheon armeno due sono gli esponenti più noti, amati direttamente per la presenza sul nostro territorio delle loro reliquie e recepiti sin dai primordi come Santi Patroni di varie comunità ecclesiali e civili. Parliamo di San Biagio martire e vescovo Sebaste e di San Gregorio Illuminatore, Patriarca e Primate d’Armenia.

San Biagio (surp Vlas) vissuto tra il III secolo e l’inizio del VI fu un vescovo cattolico e prima ancora medico. A causa della morte per decollazione è entrato nella memoria collettiva come santo taumaturgo invocato dalla pietà popolare soprattutto per i mali dell’apparato respiratorio, e in particolare per il mal di gola. Ciò spiega, forse, l’enorme diffusione della sua venerazione soprattutto nelle comunità contadine e in varie zone rurali della Penisola, in modo quasi omogeneo. È, infatti, un santo invocato per necessità materiali e questo ne ha accresciuto continuamente, per secoli, la fama e la diffusione. Circa 120 comuni in Italia, dislocati dal Friuli alla Sicilia hanno, infatti, come patrono o co-patrono il santo di Sebaste. Se San Biagio è un santo che incontra il favore popolare platealmente, e senza mediazioni, diversamente accade per San Gregorio Illuminatore ( surp Grigor Lusaworich). Egli veniva spesso recepito solo come santo vescovo, intellettuale ovvero Dottore della Chiesa (Vardapet), – come indicato in buona parte dell’iconografia in cui il santo regge il bastone dottorale a forma di Tau da non confondersi col pastorale episcopale – e per questo nel corso dei secoli è stato letto come un santo dell’aristocrazia, o di poche elite culturali. Non essendo un santo invocato per necessità materiali la sua fama non è così diffusa capillarmente, e in luoghi in cui la presenza delle colonie armene erano direttamente significative tanto che un censimento preciso delle città che ne hanno adottato la pubblica venerazione non risulta mai essere stato condotto. Ciò può apparire singolare e in contrasto con la tradizione agiografica poiché nell’antica Armenia proprio le doti taumaturgiche valsero al santo la liberazione dal Kor Virap (Pozzo profondo), dove re Tiridate III lo aveva rinchiuso. Infatti, come racconta la prima agiografia gregoriana dell’Agat’Angelos, il vescovo Gregorio dopo il supplizio del carcere nella cisterna riuscì a liberare da una grave forma di ipertricosi, volgarmente detta licantropia, lo stesso re e questi oltre a rendere salva la vita per ringraziarlo decise di dichiarare il Cristianesimo Religione di Stato.

Il culto di San Gregorio Illuminatore riguardava, in giro per l’Italia, intere comunità civili e religiose di origine armena. Di solito queste erano sufficientemente ricche da potersi permettere la costruzione di edifici di culto secondo gli stili delle varie epoche, e questi venivano periodicamente aggiornati ed abbelliti seguendo le sorti, in primo luogo della locale comunità Armena residente. Questa modalità del culto gregoriano riguardò, in varie epoche, importanti città costiere del basso adriatico come Bari, sede del Catapano, governatore bizantino. Alcuni Catapani, infatti, erano di origine armena, come Curcuas, e non è improbabile che sotto la loro spinta e di quella comunità inserita, a pieno titolo, nel patriziato cittadino siano sorte numerose chiese dedicate a santi della medesima tradizione. Una chiesa dedicata a San Gregorio Illuminatore, databile tra il X-XI secolo, sorge ancora oggi nei pressi della Basilica di San Nicola. L’edificio è in stile romanico-pugliese. La facciata modificata nei secoli è divisa da lesene, con monofore decorate e presenza di vari stili e rimaneggiamenti, che conferiscono all’esterno all’edifico un aspetto singolare. Infine San Gregorio a Bari e si affaccia sulla Piazzetta intitolata ai 62 uomini che fecero il Sacro Furto delle reliquie di San Nicola traslandole da Mira a al capoluogo pugliese. Tra i 62, pochi dei quali a dire il vero erano marinai, ci furono senz’altro degli Armeni, come Armeno fu il primo cittadino ad essere beneficato dal santo, forse egli stesso tra i promotori dell’impresa. Si tratta di un nobile di nome Curcurio, parente del Catapano Curcuas, se non identificabile, addirittura, con il medesimo.

Il caso più emblematico nel rapporto tra comunità armena civile e presenza del culto gregoriano è, però, quello della Chiesa di San Gregorio l’Illuminatore a Livorno. Eretta fra Sei e Settecento, distrutta e barbaramente espoliata nel ‘900 a causa di una serie di improvvide scelte tanto religiose quanto civili, in seguito ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Della chiesa, un tempo impreziosita dall’opera di diversi artisti primo fra tutti lo scultore Giovanni Battista Foggini, oggi è possibile ammirare soltanto i resti della facciata. Le notizie più interessanti e dettagliate sull’edificio ci vengono narrate in un interessante articolo di Stefano Ceccarini dal titolo La nazione armena e la chiesa di San Gregorio Illuminatore, apparso sulla rivista livornese “Il Pentagono” nel dicembre 2012.

Nel saggio l’autore insiste su come nella città di Livorno le comunità etniche d’oltremare assumessero la caratteristica di vere e proprie nazioni, con statuti particolari, tradizioni, usi e costumi autonomi per quanto pienamente compatibili col tessuto cittadino e le sue leggi. Il culto gregoriano, come si è detto, assumeva forme identitarie precise, in grado di tenere unita l’intera comunità di cui San Gregorio Illuminatore diventava il simbolo riconoscibile dall’esterno per la sua autorevolezza. Motivi di opportune riflessione vengono fornite a riguardo dell’intervento nella chiesa dell’architetto e scultore toscano Foggini che ne progettò le decorazioni. Tali notizie risalenti ai primi mesi del 1703 sono contenute in un prezioso carteggio, ancora inedito, intercorso tra lo stesso, il collega carrarese Andrea Vaccà e i maestri muratori Baccio e Giovanni Domenico Fei. Queste carte consentono non solo di mettere in luce il contributo dell’artista fiorentino, quale principale artefice dell’apparato architettonico e decorativo dell’opera, ma restituiscono un documento inedito su ciò che nell’edifico non è possibile più vedere. Infatti, di tutto l’impianto progettato da Foggini è possibile ritrovare solo la facciata marmorea, incastonata tra due alti palazzi destinati ad ospitare alcune case della colonia armena livornese, e un ospedale per pellegrini e i poveri. L’interno, di cui ci sono giunte diverse descrizioni, oltre alla fotografie scattate prima della seconda guerra mondiale, presentava una pianta a croce latina, con un’elegante cupola innalzata intorno al 1704 da Anton Maria Leoncini, contemporanea, dunque, agli scritti del Foggini. Sono inoltre attribuite a Giovanni Baratta quest’ultimo alcune statue con figure allegoriche delle principali virtù e uno sfarzoso altare della cappella di destra in cui si trovava una tela di François Rivière raffigurante San Gregorio che battezza il re dell’Armenia Teridate e tutto il popolo.

Come è prevedibile in San Gregorio Illuminatore furono seppelliti di molti componenti della comunità medesima, tra cui di un tale Aga di Mathus, per cui si conosce una lunga diatriba tra gli eredi e la comunità medesima circa la proprietà della chiesa, considerata dai primi cappella di famiglia. Le inumazioni all’interno dell’edificio si protrassero fino alla seconda metà del Settecento, quando gli Armeni avviarono le pratiche per la costruzione di un cimitero all’esterno della città, il che testimonia la forza numerica, burocratica ed economica della comunità stessa. Negli anni quaranta dell’Ottocento la chiesa fu poi interessata da un importante intervento di restauro sotto la direzione di Olinto Paradossi, così come ricordato da due epigrafi, una in lingua armena e l’altra in latino, datate 1844.

Le carte d’archivio mettono in luce, che nonostante gli sforzi economici a favore dell’edifico, nel primo trentennio dell’Ottocento la Nazione Armena livornese risultasse composta da pochi nuclei familiari. Questo era dovuto in particolare all’inesorabile declino d’interesse verso i beni esotici e di lusso da sempre ad appannaggio dei mercanti armeni. In particolare il caffè non risultava più un prodotto ricercato e per pochi come nel secolo precedente, inoltre gli Armeni a Livorno stavano perdendo la loro identità specifica a favore di una sempre più sostanziale e formale integrazione nel tessuto cittadino. Causa ultima del declino fu il ridimensionamento a Livorno del porto franco e il progressivo reinserimento dei dazi doganali, fino all’Unità d’Italia che travolse definitivamente la restante parte della comunità, la sua specificità e i suoi privilegi! I successivi bombardamenti del secondo conflitto mondiale inflissero danni ingenti alla chiesa, con il crollo della volta di copertura e della cupola; una parte importante del patrimonio artistico andò distrutta e molte furono le opere trafugate, comprese le cancellate della facciata. Restavano in piedi le pareti perimetrali, gli altari, il portico e il campanile, mentre i fabbricati attigui erano ancora agibili. I piani di ricostruzione del centro cittadino, prospettarono l’ampliamento della sede stradale prospiciente, così da conferire maggiore respiro agli altri edifici religiosi di sicura origine cattolica. A causa della mancanza di provvedimenti d’ordine pubblico, la chiesa degli Armeni risultò per molti anni un rudere in completo abbandono, soggetto di continue espoliazioni e atti vandalici. La scomparsa della comunità armena, gli i costi di ricostruzione e la volontà del Patriarcato Armeno, sotto cui egida la chiesa era nel frattempo finita, di alienare la proprietà di Livorno, determinarono l’avvio dei lavori di abbattimento dei resti della chiesa di San Gregorio. Dopo anni di battaglie di vari associazioni ed enti per la salvaguardia del patrimonio artistico, con il benestare delle sovrintendenze competenti, dal 2008 la Chiesa Armena di San Gregorio Illuminatore è sede di un centro interculturale.

L’esempio più noto circa la presenza di San Gregorio Illuminatore in Italia è quello della Chiesa di San Gregorio Armeno a Napoli , così ribattezzato per distinguere il santo evangelizzatore d’Armenia da altri santi omonimi primo fra tutti San Gregorio Magno. La chiesa di San Gregorio Armeno, con il relativo complesso conventuale, è ubicata nell’omonima strada del centro storico di Napoli, resa caratteristica dalle famose botteghe della tradizione presepiale napoleta. Sorgerebbe, secondo alcune tradizioni popolari tardo antiche, sul luogo in cui il vescovo Nostriano nel V secolo aveva edificato un ospizio per poveri ed ammalati, secondo altre versioni, invece, il complesso monumentale sarebbe stato edificato attorno al 930 nel luogo in cui Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, avrebbe fondato il suo monastero. Le tradizioni più accreditate vorrebbero la presenza in quelli stessi luoghi di un cenobio di monache basiliane, seguaci di santa Patrizia, che vi si sarebbero stabilite dopo la morte della santa, in fuga dalle persecuzioni, portando con sé le reliquie di san Gregorio. Solo nel 1009, quindi in epoca normanna, il monastero fu unificato a quello dedicato a San Pantaleone, a non molta distanza, assumendo così la regola benedettina. La tradizione riportata dal Card. Cesare Baronio negli Annales ecclesiastici, certamente più dettagliata, ritiene che le reliquie del santo furono trasferite in Italia da monache e fedeli armeni, fuggiti da Costantinopoli. Ciò sarebbe avvenuto al tempo dell’imperatore iconoclasta Costantino Copronimo (741-775). In ogni caso è assai probabile l’esistenza a Napoli di una notevole comunità armena, anche perché in un calendario lapideo risalente alla prima metà del IX secolo, trovato nel 1742 durante i lavori di restauro della chiesa di San Giovanni Maggiore, sono indicate le feste di San Gregorio l’Illuminatore e di due vergini e martiri armene, santa Hrip’sime e santa Gayiane.

L’attuale edificio con annesso convento risale al 1574, anno in cui, secondo il Canonico Celano, seguendo i dettami del Concilio di Trento i precedenti edifici furono trasformato, in “comoda l’abitazione ed atta alla vita comune”. La badessa, Donna Giulia Caracciolo, nell’ambito delle riforme conciliari, aveva previsto l’erezione di una nuova chiesa e “la principiò col disegno, modello e guida di Vincenzo Della Monica e Giovan Battista Cavagna e quasi tutto fu fatto del denaro proprio di essa Donna Giulia”. Terminata la costruzione, la chiesa fu consacrata nel 1579 e l’anno successivo dedicata a S. Gregorio Armeno, come ricordano le iscrizioni ancora oggi visibili nell’atrio interno. Apprendiamo queste ed altre interessanti notizie da una recente monografia sulla mirabile chiesa, che ne ripercorre le vicende storiche, artistiche e archivistiche, curata da cura di Nicola Spinosa, Aldo Pinto e Adriana Valerio; e con i contributi fotografici di Luciano Pedicini. San Gregorio Armeno: storia, architettura, arte e tradizioni, questo il titolo del volume, apparso nel 2013 per i tipi della Fridericiana Editrice Universitaria, ha l’importante merito di indagare in particolare il rapporto fra le storia delle donne e questa istituzione religiosa.

Sovvenzionato dalla “Fondazione Valerio per la storia delle donne”, il volume narra numerosi fatti, per lo più inediti o poco noti, come alcune importanti modalità di emancipazione culturale che le monache avevano stabili all’interno del convento. Le giovani indirizzate nel Monastero di San Gregorio Armeno di Napoli, provenivano, infatti, della più ricche e nobili famiglie napoletane e spesso delle regioni limitrofe. In molti casi si trattava di ragazze con una sorprendente propensione allo studio e all’arte, e il convento diventò quindi, in epoca tardo barocca, un vero e proprio laboratorio culturale e artistico, provvisto di quello che oggi potremmo definire un auditorium per rappresentazioni teatrali e musicali. Dal monastero di San Gregorio Armeno passò tra gli altri un frate minore conventuale di Terrà d’Otranto, Giuseppe Desa da Copertino, durante il processo intentatogli a Napoli dall’Inquisizione Spagnola. In quel luogo ebbe anche alcune estasi dopo aver celebrato Messa e le monache, in più d’una occasione, durante quei fenomeni gli asportarono pezzi della tonaca, tanto che il santo risvegliatosi se ne doleva protestando la sua povertà e come quello fosse il suo unico indumento. Le stesse, evidentemente cercando di lucrare su possibili reliquie, gli rispondevano, che avrebbero potuto fargliene una tutta nuova se solo avesse consegnato loro la precedente indossata durante i voli mistici.

Carlo Coppola

Bibliografia:

  • C. Baronio, Annales ecclesiastici, Roma, Typographia Vaticana, 1588-1607 S. Ceccarini, La nazione armena e la chiesa di San Gregorio Illuminatore , in “Il Pentagono”, novembre-dicembre 2012
  • N. Lavermicocca, Bari bizantina, Edizioni di Pagina, 2004 (a cura di) G. Musca, Storia di Bari, I. Dalle origini al Mille, Laterza, 1989.
  • L. Mongiello, Chiese di Puglia. Il fenomeno delle chiese a cupola, Bari, Adda, p. 103, 1988;
  • G. Panessa, M. Sanacore, Gli Armeni a Livorno. L’intercultura di una diaspora, Livorno 2006.
  • (a cura) di Nicola Spinosa, Aldo Pinto e Adriana Valerio, San Gregorio Armeno: storia, architettura, arte e tradizioni con fotografie di Luciano Pedicini, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2013
  • (a cura di) N. Tommaseo, Storia di Agatangelo, versione italiana illustrata dai monaci armeni Mechitaristi, Venezia, Tip. armena di S. Lazzaro, 1843