Le calende greche? Esistono.

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Già nell’antica Roma per indicare che un debito non sarebbe mai stato onorato l’imperatore Augusto soleva dire: ad Kalendas Graecas soluturos. Questo modo di dire è giunto fino ai nostri giorni proprio per indicare un evento che non accadrà mai e questo perché, a differenza del calendario romano che indicava col termine calende i primi giorni del mese, nel calendario greco le calende non c’erano.

Ironia della sorte oggi a Roma le calende non ci sono più. e se c’è un posto al mondo dove poterle trovare questo luogo è proprio la Grecia.

In questi giorni di festività natalizie, torme di ragazzini ma anche di adulti, girano per le case, per le strade e per gli esercizi commerciali, e dopo aver rispettosamente chiesto: “Possiamo dirle?” cominciano a cantare “ta kàlanda” (le calende) accompagnati musicalmente da un triangolo o, i professionisti, anche da liuto, tamburello, flauto e altri strumenti musicali locali.

La tradizione, come si può comprendere dal termine, risale ai tempi dell’antica Roma e soprattutto alle feste dionisiache. In quel tempo i bambini per augurare il buon anno, che veniva celebrato in quello che oggi è il mese di marzo, con il risveglio della natura, cantavano tenendo in mano un ramoscello d’ulivo avvolto in lana di pecora, simbolo di allegria e fertilità.

Con Costantinopoli, Nuova Roma, questa antica tradizione, sostituito ogni riferimento al paganesimo con la buona novella di Cristo, si è conservata e si ripete soprattutto alla vigilia del giorno di Natale, di Capodanno e della Teofania (Epifania) con versi (in un greco dotto) differenti a seconda della festività che si va a celebrare ma anche del luogo. In Grecia si contano oltre 30 differenti kàlanta provenienti da ogni parte del mondo ellenico anche da quelle parti che in Grecia chiamano “le patrie perse” come Costantinopoli, il Ponto, Smirne.

Si spera che questa tradizione ben augurante non venga inquinata o spazzata via da altre che il mercato inflessibilmente impone.

Paolo Scagliarini