L’Esodo nei Padri
Prima di addentrarci nel commento patristico al evento dell’Esodo, riportato nei libri della Torà, occorre rendere conto del come gli antichi scrittori cristiani si avvicinavano alla Sacra Scrittura e in particolare all’Antico Testamento.
Con l’avvento del cristianesimo e la sua apertura ai convertiti dal paganesimo si pose subito la questione della relazione con le Scritture sacre per la religione ebraica. Il Dio di Gesù, amorevole e misericordioso al punto di sacrificare Suo figlio per la salvezza dell’umanità, è lo stesso Dio severo, esigente e geloso, come Lui stesso si definisce, dell’A.T.?
Da molte parti veniva la proposta di abbandonare quelle Scritture e lasciarle ai giudei, perché i Vangeli e gli scritti degli apostoli costituivano un’assoluta novità. Il dibattito era acceso e coinvolgeva gruppi di vario genere, in primis gli gnostici, ma anche docetisti e altri ancora.
Come i Padri salvarono la sacralità dell’A. T.? Interpretandolo per intero come un annuncio figurato della vicenda di Cristo, come una lunga, paziente preparazione a ciò che doveva accadere, e il Nuovo Testamento come compimento definitivo delle promesse contenute nell’antico.
Il ricorso frequente all’interpretazione allegorica servì a risolvere i molti nodi problematici che l’interpretazione letterale lasciava aperti.
In verità esistevano due impostazioni diverse della interpretazione delle Scritture, una allegorica, sulla scia di quella che fu già l’interpretazione di Filone, in Alessandria, che troverà nel genio di Origene la sua massima espressione, e quella più storica, legata alla realtà del testo, ma comunque indirizzata a scorgerne l’insegnamento morale, che trova nella scuola di Antiochia in Siria il suo centro di irradiazione.
Entrambe le realtà però hanno ben chiaro che la Bibbia è Parola di Dio e pertanto, come insegna lo stesso Gesù, neppure uno iota va perduto.
Detto ciò possiamo accostarci a quello che fu l’insegnamento dei Padri circa l’Esodo degli ebrei dall’Egitto.
Non parlo del Libro dell’Esodo soltanto, perché il suo racconto si trova completato e arricchito in tutti e 5 i libri della Torà e i Padri, nei loro commenti e nelle loro omelie fanno riferimento anche a Numeri, Deuteronomio, Levitico, qualcuno mettendo le vicende lì narrate addirittura in relazione con i personaggi di Genesi, Abramo, Giacobbe e Giuseppe.
I primi riferimenti all’Esodo si hanno nei primissimi scritti cristiani. Scrive il prof. Panimolle nel Dizionario di Spiritualità Biblico Patristica, da lui diretto:
Nel più arcaico scritto cristiano non canonico, qual è la Dottrina dei dodici Apostoli, troviamo diverse citazioni o riferimenti ai testi dell’Esodo, del Levitico e del Deuteronomio, inoltre qualche volta sono riportati passi di questi libri, considerati normativi anche per i seguaci del Signore Gesù; anzi in questo documento letterario così autorevole è proposta la spiritualità dell’Esodo sintetizzata nell’amore per Dio e per il prossimo.
Riferimenti a testi della legge mosaica sono nella Didaché, mentre nella Lettera di Clemente Romano ai Corinzi troviamo le primissime interpretazioni dell’uscita dall’Egitto come uscita dal peccato e l’affondamento dei carri e dei soldati del Faraone, come il rinnegamento delle abitudini peccaminose del mondo pagano circostante, da cui molti cristiani provenivano, e come punizione di coloro che hanno indurito il cuore, come il Faraone e gli egiziani, anche di fronte ai tanti segni compiuti da Mosè prima, e da Gesù poi.
Il martire Giustino, (n. Samaria, Neapolis inizio II sec – m. Roma 164) nel suo Dialogo con Trifone, propone un’interpretazione fortemente cristologica dei punti fondamentali dell’Esodo, interpretazione che sarà ripresa da molti Padri nel tempo.
Nel roveto ardente, Cristo si manifesta a Mosè e sempre Lui nella nube guida il popolo in fuga, confonde gli inseguitori, il bastone di legno con cui Mosè separa le acque del Mar Rosso, è la croce di Cristo, il legno, come quello della croce, rende le acque dolci da amare che erano, o fa sgorgare l’acqua dalla roccia, le braccia alzate di Mosè durante al battaglia contro Amalech sono figura di Cristo sulla croce, come lo è il serpente di bronzo innalzato da Mosè sul suo bastone, per guarire il popolo dai morsi dei serpenti. Gesù stesso dice di sé: quando sarò innalzato da terra solleverò tutti a me. E giovanni nel suo Vangelo scrive: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo. Tutte queste azioni portano la salvezza e saranno realizzate in modo universale e definitivo dalle azioni di Cristo.
Ireneo di Lione ( n. Smirne 135 – 140 m. Lione 170), nella controversia con gli eretici soprattutto gnostici, difende la bontà dell’A.T., interpretato come una grande profezia di quello che si compirà in Gesù Cristo. Il popolo ebreo eletto da Dio cede il posto al popolo cristiano a causa del suo rifiutare l’adempimento delle profezie, ma tra le due realtà c’è complementarità e non rottura. Il N.T. è il compimento dell’A.T.
Gesù quindi è il nuovo Mosè. Ireneo vede nell’accecamento degli egiziani e nel loro precipitare nel mare e perdere la vita l’annuncio del cambio di elezione tra Israele e la Chiesa di Cristo.
Se gli egiziani non fossero affogati, Dio non avrebbe potuto salvare il popolo ebreo… se i giudei non fossero diventati uccisori del Signore – cosa che tolse loro la vita eterna – e se, uccidendo gli apostoli e perseguitando la Chiesa, non fossero caduti nell’abisso dell’ira, noi non avremmo potuto essere salvati. Infatti, come quelli ricevettero la salvezza con l’accecamento degli egiziani, così noi l’abbiamo ricevuta con l’accecamento dei giudei, se è vero che la morte del Signore è condanna di quelli che l’hanno crocifisso e non hanno creduto alla sua venuta e salvezza di quelli che credono in lui. (AH IV 28,3).
Ancora per Ireneo la pasqua di Mosè è figura della Pasqua di Cristo. Il sangue dell’agnello sacrificato, posto sugli stipiti delle porte delle case degli ebrei, salvò i loro primogeniti dall’angelo sterminatore, che portò morte nelle case degli egiziani, così il sangue sparso da Gesù sulla croce salva l’umanità dalla morte del peccato. Il sacrificio di Cristo è prefigurato in quello dell’agnello:
…Egli salvò i figli d’Israele, rappresentando nel mistero la passione di Cristo, per mezzo del sacrificio dell’agnello immacolato e del suo sangue dato in garanzia di sicurezza per ungere le case degli ebrei. E il nome di questo mistero è passione, causa della liberazione. (AH III, 21,8).
Così la manna che Dio concede al popolo ebreo in nutrimento, è figura del pane eucaristico, vero suo corpo, dato da Gesù in nutrimento delle nostre anime.
Mosè però non realizza realmente in tutto la salvezza del popolo, infatti egli conduce il popolo solo fino alle soglie della terra promessa, ma sarà Giosuè a conquistarla. Non a caso il nome Giosuè è identico al nome Gesù, particolare che non sfugge ai Padri.
La spinta nel deserto del popolo liberato dalla schiavitù vissuta in un mondo pagano è utilizzata da Dio per ricondurre gli animi alla purezza della fede nell’unico Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che si era offuscata nei lunghi anni di servaggio. Il deserto diviene il luogo ideale perché Dio possa impartire il suo insegnamento al suo popolo, spingendolo ad avere fiducia nella sua protezione, nel suo amore, insegnando loro la giustizia e l’amore per il prossimo.
La relazione esodo dall’Egitto – popolo ebreo e uscita dal paganesimo – Chiesa porta in sé la spiritualità del pellegrinaggio, ossia il distacco interiore dalle cose terrene, di cui è lecito servirsi, ma a cui non è giusto essere attaccati.
Si conclude il discorso di Ireneo con una visione escatologica, chi accetta di seguire Cristo nella Sua Chiesa sarà salvato ed entrerà nel Suo Regno, mentre chi non lo vorrà riconoscere come Signore e salvatore subirà le piaghe che tormentarono l’Egitto in eterno (AH, IV, 30,4). :
Tutto l’esodo del popolo dall’Egitto, avvenuto per opera di Dio, era figura e immagine dell’esodo della Chiesa dai pagani, che per questo anche alla fine uscirà da qui per entrare nella sua propria eredità, che le darà non Mosè, il servo di Dio, ma Gesù, il Figlio di Dio.
Ma un vero passo avanti nell’interpretazione dell’Esodo si ha con Origene, il grande esegeta di Alessandria (Alessandria 185 – Tiro 254).
Origene dà dell’Esodo un’interpretazione spirituale, soteriologica ed ecclesiologica. Egli parte della parola ebraica Pesach, Pasqua che secondo gli ebrei significa “passaggio”, nel senso di liberazione dalla schiavitù in Egitto. Per questo, sottolinea Origene, gli ebrei festeggiano ogni anno la loro liberazione immolando un agnello, che, col suo sangue, risparmiò la vita dei loro primogeniti, mentre i primogeniti dei loro oppressori venivano sacrificati.
Così comincia l’esodo, che per Origene è un esodo perenne, verso la Terra Promessa, ossia l’unione con Dio, per la quale è necessario lasciarsi alle spalle tutto ciò che trattiene e rallenta il cammino.
Mosè e Aronne chiesero al Faraone di lasciar partire il popolo, affinché potesse sacrificare al suo Dio, inoltrandosi nel deserto con un cammino di tre giorni.
Questo richiamo ai tre giorni dà a Origene l’appiglio per un’interpretazione cristologica del racconto.
Qual è questa via di tre giorni, dice Origene, nella quale dobbiamo avanzare affinché usciti dall’Egitto possiamo giungere al luogo in cui sacrificare? Io intendo per via colui che ha detto “Io sono la via, la verità e la vita”. (Origene, Omelie sulla Pasqua 1,1 – 2)
Cristo è per Origene la Pasqua definitiva.
Liberato dall’Egitto, ossia dal mondo, il popolo o l’anima del cristiano, o la Chiesa, dovrà affrontare le sfide del deserto, le lunghe marce, la fame e la sete, la tentazione di volgersi indietro, ai pochi benefici della schiavitù, mentre per Origene è di gran lunga meglio morire nel deserto, che tornare nel potere di Satana. Questo concetto influenzerà tutta l’esperienza successiva dei padri del deserto e la loro spiritualità.
La tentazione di tornare indietro, intrapresa la via della salvezza è comune all’esperienza cristiana e a quella vocazionale. Dice ancora Origene:
Ognuno di noi, (se è) uscito dall’Egitto e abita nel deserto, deve abitare sotto la tenda e celebrare la festa delle Tende… E donde si devono ricavare queste tende se non dalle parole della legge e dei profeti, dai versetti dei salmi, e da tutto quello che è contenuto nella Legge? Quando, mediante le Scritture l’anima progredisce … e, quando avanzando da un punto inferiore … progredisce a cose più elevate … si dirà a ragione che abita nella tende. (Omelie sui Numeri XVII, 4)
Si parla di funzione sacramentale della Sacra Scrittura in Origene; noi non siamo semplici lettori, ma siamo rigenerati dall’AT e dal NT. Tutta l’esperienza cristiana è generata dalle Scritture.
Tre sono le Pasque: nella prima il popolo ebreo esce dalla schiavitù dell’Egitto, nella seconda Cristo libera l’umanità intera dalla schiavitù del peccato, nella terza la tromba chiamerà a raccolta tutti i credenti in Cristo per accogliere lo Sposo che viene.
La forma dell’esodo diviene condizione necessaria del popolo di Dio. La Chiesa e tutti i suoi singoli membri devono morire a sé stessi per essere trasfigurati in Cristo.
La vita del cristiano è un viaggio e Origene così ci esorta:
Se hai compreso quale pace possieda la via della sapienza, quanta grazia e quanta dolcezza, non essere indifferente e trascurato, ma intraprendi questo viaggio e non avere timore della solitudine del deserto … Soltanto comincia… (Om. Num. XVII, 4).
Se per Filone l’Esodo è l’allegoria del cammino dell’anima dalla corporeità alla spiritualità, per Origene la storicità dell’evento esodo è salvata in quanto figura dell’evento Cristo. Cristo infatti precede gli eventi narrati nella Scrittura che lo prefigurano, perché era prima di essi e prima di incarnarsi in quel momento storico. Egli è prima delle sue figure.
E con questa visione egli incomincia a esaminare le tappe dell’Esodo partendo dalla fine, dall’incarnazione del Verbo. Quarantadue furono le tappe nel deserto del popolo ebreo, quarantadue le generazioni enumerate da Matteo nel suo Vangelo, questa coincidenza fa capire come la discesa di Gesù nel mondo sia ciò che ci conduce a Dio.
Nell’imminenza della guerra contro gli Amaleciti Mosè chiama Giosuè, suo erede e successore, in ebraico Giosuè e Gesù sono lo stesso nome, quindi Origene usa quest’ultima accezione e dice:
Dopo queste cose (la manna e le acque di Meriba) viene descritta la guerra contro gli Amaleciti, si riferisce che il popolo combatté e vinse. Prima che il popolo mangiasse il pane del cielo e bevesse l’acqua dalla pietra, non si riporta che abbia combattuto, ma si dice ad esso: il Signore combatterà per voi, e voi fate silenzio.
C’è dunque un tempo in cui il Signore combatte per noi e “non permette che noi siamo tentati al di sopra di quel che possiamo (1Cor 10,13)” e non permette che noi veniamo a battaglia con il Forte con forze ineguali. In effetti anche Giobbe compì tutto quel famosissimo combattimento della sua tentazione già perfetto (Giob. 1,1)
Anche tu dunque quando incomincerai a mangiare la manna, il pane celeste della Parola di Dio, e a bere l’acqua dalla pietra, quando sarai giunto al cuore della dottrina spirituale, attenditi la battaglia e preparati alla guerra.
Vediamo dunque cosa comandi Mosè nell’imminenza della guerra. Disse a Gesù: scegliti degli uomini ed esci a combattere domani contro Amalec (Es 17, 9). Fino a questo passo non è mai stata fatta menzione del nome beato di Gesù; qui per la prima volta rifulse lo splendore di questo nome, qui per la prima volta chiamò Gesù e gli disse: “scegliti degli uomini”
Mosè chiama Gesù, la legge invoca Cristo, affinché si scelga degli uomini potenti dal popolo.
Mosè non avrebbe potuto scegliere; ma è solo Gesù che può scegliere uomini potenti, lui che ha detto “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 11,16). Lui è il duce degli eletti, lui è il principe dei potenti, lui è colui che combatte contro Amalec; giacché è lui che “entra nella casa del Forte e ne porta via i beni” (Mt 12, 29). (Origene, Omelie sull’Esodo, XI, 3)
L’opera forse più completa d’interpretazione dell’Esodo è forse quella composta da Gregorio di Nissa (Cesarea 335 – Nissa 395). Fratello minore di Basilio Magno, Gregorio di Nissa è il più filosofico dei padri Cappadoci, è quello che ha dato alla teologia cristiana la struttura filosofica più completa e articolata.
Gregorio scrive La vita di Mosè, commentando non solo il Libro dell’Esodo, ma anche i racconti riportati negli altri libri della Torah, Numeri Levitico e Deuteronomio. Nella prima parte espone il racconto della vita di Mosè così ricomposta nei vari elementi, mentre nella seconda parte la interpreta alla luce sempre della fede in Cristo Signore e nel suo intervento nella storia, anche prima di incarnarsi nell’uomo Gesù.
In primo luogo Gregorio dimostra come la lettera della Legge è insufficiente a darci il vero senso di ciò che Dio vuole da noi, occorre quindi un’interpretazione spirituale o anagogica:
La Scrittura ordina agli ebrei di cibarsi delle carni da cui sgorgò il sangue che misero sulle porte, per tener lontano l’uccisore dei primogeniti egiziani. Essa impone a chi prende quel cibo un modo di vestire che è diverso da quello in uso nei banchetti della gente spensierata. Costoro a banchetto ci stanno con le mani libere, le vesti discinte e i piedi nudi. Al contrario gli ebrei devono portare i calzari, avere intorno ai fianchi una fascia che stringa forte le pieghe della veste, tenere in mano un bastone per difendersi dai cani.
Vestiti in questo modo essi prenderanno cibo, cucinandolo in fretta, senza condimenti, su un fuoco improvvisato.
Esso è rappresentato dalle carni dell’agnello, che devono consumare totalmente, lasciando intatto soltanto il midollo delle ossa. Neppure le ossa dovevano essere spezzate e se ci fossero stati degli avanzi, dovevano essere distrutti nel fuoco.
Tutti questi particolari ci fanno chiaramente capire che la lettera della Scrittura mira a un insegnamento spirituale. Non possiamo pensare che la legge voglia insegnarci il modo di cucinare i cibi (a questo basta la natura che ha smesso in noi il desiderio del cibo), ma dobbiamo ritenere che essa, con tutti questi precetti, ha valore semantico.
… Nel tenersi pronti alla partenza in tenuta da viaggio c’è un significato simbolico abbastanza chiaro, che ci fa capire come la vita terrena sia un viaggio. Fin dalla nascita esso procede sotto la spinta di una forza ineluttabile verso questo termine che segna la fine delle nostre attività presenti. A rendere più sicuro il viaggio, , occorre provvedere l’equipaggiamento necessario alle mani e ai piedi. Bisogna coprirci i piedi, perché le spine di questa vita, che sono i peccati, non ci danneggino. Ci occorrono perciò calzature robuste, che fuor di metafora, sono l’austerità e le mortificazioni, capaci di spezzare la punta delle spine, di impedire cioè che il peccato penetri nell’anima fin dagli inizi, quando si presenta in forma attraente ed entra furtivamente in noi.
In questo modo Gregorio interpreta e spiega tutti gli episodi della vita di Mosè, dalla sua nascita durante una strage, fino all’estremo compimento. Più volte egli difende la scelta dell’interpretazione spirituale e allegorica, traendo un insegnamento di vita da ogni singolo racconto.
La figlia del Faraone rappresenta la filosofia pagana, che è necessaria, perché salva la vita di Mosè ma è sterile, perché non in grado di generare a sua volta vita.
L’oro e l’argento che Dio comanda di sottrarre agli Egiziani rappresentano tutte quelle conoscenze che gli Ebrei hanno acquisito in Egitto, conoscenze di architettura, matematica, astronomia e medicina, da portare con loro nella terra promessa. Il passaggio del mar Rosso è paragonato al Battesimo e i cavalieri e i carri del Faraone sono le cattive inclinazioni, l’ira e i peccati capitali che vengono distrutti dalle acque del Battesimo. La Manna che Dio manda a nutrimento del popolo nel deserto è figura dell’Eucaristia, Cristo che si fa pane per nutrire le nostre anime. Inoltre il fatto che se conservata ammuffisce, offre l’insegnamento che non si deve essere avidi e cercare di accaparrarsi più del necessario per vivere. Solo per citarne alcuni. Il De Vita Moysis è una lettura davvero edificante.
Abbiamo cercato qui di dare un’idea di quella che fu l’esegesi patristica dell’Esodo, certo si sono dovuti trascurare molti autori, ma non era possibile, in un incontro solo, dare il giusto risalto a tutti.
Roberta Simini