Trump o Biden, l’american way of life è insostenibile
In questi giorni di un novembre pandemico, mentre le castagne scoppiettavano sul fuoco del camino, ho sentito parlare molto di Stati Uniti d’America. La sfida tra Trump e Biden ha appassionato anche l’Italia, dividendo telespettatori e social-dipendenti nella più classica contrapposizione tra tifosi dell’uno o dell’altro candidato. Ma quanto, ancora oggi, il modello americano, supportato da micidiali campagne di marketing, possa influire concretamente sulle nostre vite, l’ho scoperto mentre ero in una coda di automobili che procedevano a passo d’uomo. Proprio mentre i social venivano invasi da meme che sfottevano Trump e post che inneggiavano a Biden, mi sono accorto che quella che aveva bruciato inesorabilmente 30 minuti della mia vita era la fila per entrare al drive-in del Mc Donald di Avezzano. Non trent’anni fa. Ma oggi, proprio mentre si stanno consolidando le filiere del grano antico Solina sul territorio marsicano, una fila interminabile di avezzanesi era in coda per ingurgitare patatine fritte, hamburger e coca cola!
Tra il basito e l’incazzato, memore anche delle innumerevoli segnalazioni di rifiuti gettati per strada nei pressi di quel distributore di panini in stile yankee, mi sono chiesto, ancora una volta, quanto lo stile di vita americano possa pesare sul resto del Pianeta.
Negli USA ci sono stato molte volte e ho imparato a conoscerne anche le enormi contraddizioni. San Francisco, ad esempio, prendendo le mosse della prime raccolte differenziate sviluppate nel nord Italia, è stata la prima metropoli del mondo ad incamminarsi verso rifiuti zero. Lì vicino, a Berckley, è stata emanata un’ordinanza che vieta l’usa e getta, in qualsiasi materiale, anche compostabile, in tutti i locali dotati di tavoli per la consumazione di cibi e bevande. A Corvallis, in Oregon, ho trovato diverse buone pratiche ecologiche: dalla vendita di prodotti sfusi senza imballaggi in tutti i supermercati, ai mezzi pubblici utilizzabili senza pagare il biglietto. Il costo del trasporto pubblico cittadino viene distribuito tra tutti i residenti, addebitandolo sulla bolletta dell’acqua. A New York, invece, è stata avviata la raccolta differenziata dell’organico con la consulenza di tecnici italiani, sul modello di Milano.
Ma una rondine può fare primavera? I dati dicono di no. Nonostante alcuni stati, prevalentemente della costa Ovest, a partire dalla California, abbiano iniziato a porsi il problema ecologico, gli USA sono ancora la terra di enormi ed inaccettabili sprechi che oggi pagano le nazioni più povere e domani pagheranno le generazioni future.
Il Global Footprint Network, che ogni anno calcola l’impronta ecologica dei singoli stati e dell’intera umanità, ci dice che se tutte le persone del mondo consumassero come uno statunitense, servirebbero 5 pianeti per produrre le risorse necessarie a soddisfare i bisogni di tutti. Se, invece, vivessimo tutti come in Mozambico, basterebbe mezzo pianeta: gli sprechi disumani degli uni si pagano con la miseria degli altri.
Non esiste al mondo un paese più inefficiente degli USA nell’impiego delle risorse naturali e, per emissioni pro capite, gli statunitensi restano i maggiori responsabili delle emissioni che causano il riscaldamento globale e il peggioramento del clima. Basti pensare alle enormi automobili, i pick-up che fanno tanto USA, che precorrono solo 5 km con un litro di benzina o all’eccessivo consumo di carne tipico della dieta a stelle e strisce.
Anche il confronto con il maggiore produttore di gas serra del mondo, la Cina capital-comunista, è a discapito degli USA: mentre un americano produce 16 tonnellate di CO2 all’anno, un cinese ne produce 7 tonnellate; un americano consuma 4,97 pianeti all’anno, un cinese ne consuma 2,2. Senza contare che quello cinese è un sistema totalitario e quando hanno deciso che andava combattuto l’inquinamento dell’aria, ci hanno messo poco a intervenire. Oggi, 421mila dei circa 425mila bus elettrici in servizio nel mondo sono in Cina. Con la metà delle vendite globali del 2018, il paese del dragone è il maggiore acquirente e produttore di veicoli elettrici. Nel 2018 si è registrato il 32,7% in più di veicoli circolanti per le strade rispetto al 2013, ma l’inquinamento dell’aria è diminuito dell’11,1%.
Purtroppo, nessuno dei due candidati alla carica di presidente degli USA ha messo al centro del suo programma la necessità di cambiare radicalmente lo stile di vita degli americani. Hamburger e Pick-Up continuano ad essere i simboli dell’America più verace e profonda. Stavano in piedi sui cassoni dei pick-up anche i sostenitori di Biden al suo primo discorso da presidente in pectore.
Ovviamente, siamo favorevoli al fatto che gli USA non escano degli accordi di Parigi per il clima. Ma non basta. Di accordi internazionali per la lotta ai mutamenti climatici se ne parla da decenni con risultati francamente deludenti. Tanto che oggi, superato il punto di non ritorno, possiamo parlare solo di mitigazione del peggioramento del clima.
La vera sfida è mettere definitivamente in discussione il modo americano di produrre, di consumare, di vivere. Negli USA e ovunque questo modello sia stato esportato in decenni di imperialismo a stelle e strisce. Una sfida epocale, forse troppo grande anche per l’anziano Biden.
Voglio ricordare che, grazie all’italiano Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, sono stati i ricercatori statunitensi del MIT di Boston che per primi, nel 1972, dimostrarono scientificamente l’insostenibilità dell’american way of life. Mettendo a punto il primo modello previsionale computerizzato, pubblicarono i risultati del loro lavoro nel rapporto Limits to the Growth (i limiti della crescita). Dopo quasi mezzo secolo, è tempo che gli USA (e noi con loro) inizino ad ascoltare i loro figli migliori.
Massimo De Maio