Amore e coraggio non sono soggetti a processo
Quando Robert Brasillach (1909 – 1945) scrive questi versi ha 36 anni. È rinchiuso nel carcere di Fresnes accusato di «intelligenza col nemico» per essersi schierato dopo la resa della Francia con i nazionalsocialisti. Non si fa illusioni, sa che la sentenza di condanna a morte è già scritta anticipatamente e a nulla varranno gli appelli alla clemenza rivolti a de Gaulle da intellettuali e scrittori d’ogni parte politica, da Albert Camus a François Mauriac, da Paul Claudel a Paul Valery (solo i livorosi Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir si rifiutarono di sottoscrivere la domanda di grazia).
La fucilazione, avvenuta la mattina del 6 febbraio 1945, pone fine alla parabola umana e artistica di un intellettuale tra i più rappresentativi di quel movimento culturale e politico che Paul Serant definirà icasticamente «romanticismo fascista».
I versi citati nel titolo sono tratti da Il testamento di un condannato, una lunga composizione in ventiquattro ottave, che riecheggia quella famosa di Villon, ma dove, a differenza di questa, è assente l’irriverenza e il tono giocoso ed è presente invece una lacerata drammaticità. Ne riportiamo i versi iniziali e finali:
Nel carcere Brasillach si affida alla preghiera e alla scrittura. Scrive un saggio sul poeta Andrea Chenier, il «fratello dal collo mozzato»; la Lettera ad un soldato della classe ‘40, che è un bilancio della sua vita e una sorta di testamento spirituale in cui si rivolge alle future generazioni rivendicando, al di là degli errori commessi, le sue scelte politiche; e i Poemi di Fresnes, una raccolta di poesie che vibrano di umana pietà per la sorte di tutti i condannati senza distinzione, di tutti gli umiliati ed offesi, nonché di virile dignità di fronte al destino e di amore per la patria:
In quello straordinario romanzo a sfondo storico-politico, che è I Sette colori (1939), in cui sono mescolati, capitolo dopo capitolo, tutti i generi letterari, dall’epistola all’aforisma, dal monologo al diario, dalla narrativa al teatro, il poeta aveva scritto: «Ogni età ha la sua bellezza e questa bellezza deve sempre essere libertà. Soltanto la libertà e la bellezza del trentesimo anno, sfuggite all’adolescenza, minacciate dall’avvenire, sono per la prima volta congiunte alla lucidità». E poco oltre: «A trent’anni l’uomo e la donna trovano la perfezione del piacere; l’ardore, l’impeto, la potenza, ma anche la sua scienza, la sua lentezza. I due giovani corpi che la nudità ringiovanisce, hanno l’uno per l’altro l’attenzione, la premura la precauzione dell’amicizia. In riva al piacere si aspettano, come due nuotatori, e possono attendersi, e possono non attendersi a lungo. […] È il miracolo di quegli anni, fragile quanto il miracolo dell’adolescenza, e forse è il solo autentico compenso apportato dal tempo».
E non a torto il culto di Brasillach per la giovinezza è stato colto lucidamente dal saggista Alessandro Barbera che in un articolo su Nuovo Confronto metteva in rilievo come lo scrittore francese «resta essenzialmente il cantore della giovinezza; di un’età intensa e meravigliosa e pure breve e fugace, da cui il rimpianto che essa genera col suo finire». E proseguiva: «è proprio l’amore per la giovinezza ciò che spinge Brasillach verso il fascismo e sarà questo amore a costargli la vita. Un fascismo vissuto e sentito in chiave poetica, ma non per questo colto superficialmente».
In una delle sue poesie più significative dei Poemi di Fresnes, Brasillach scriveva:
Il poeta francese nei suoi testi ha voluto lasciarci una toccante testimonianza esistenziale e poetica e indicarci una via: «la custodia delle uniche virtù in cui aveva sempre creduto: la fierezza e la speranza» (Pino Tosca).
Sandro Marano