Charbel Makhluf
l valore della preghiera, del silenzio e della contemplazione in san Charbel Makhluf (al secolo Yusef Makhluf) primo confessore dell’oriente portato agli altari .
Al monaco eremita (1828-1898) è dedicato un santuario nella sua terra natale, il Libano. Umile, schivo, di pochissime parole non ha lasciato alcuno scritto o avviato opere sociali o movimenti spirituali e neanche
fondato congregazioni. I pochi che hanno avuto occasione d’incontrarlo testimoniano la sua purezza e la sua santità soprattutto al momento della sua morte e intorno alla sua tomba con grazie di guarigione,
consolazione e conversione.
Figlio della Chiesa maronita san Charbel è invocato per il suo carisma taumaturgico: “grande è la gioia dell’oriente e dell’occidente per questo figlio del Libano, mirabile fiore di santità sbocciato sul ramo
delle antiche tradizioni monastiche orientali e venerato oggi dalla Chiesa di Roma” disse Paolo VI nell’omelia pronunciata per la beatificazione il 5 dicembre 1965, per poi proclamarne la santità il 9
ottobre 1965. È stato il primo confessore dell’oriente portato agli altari secondo la procedura attuale della Chiesa Cattolica. Un simbolo d’unione tra oriente e occidente.
Paolo VI descrive il Libano come “crocevia privilegiato e punto d’incontro tradizionale tra Africa, Asia ed Europa” soffermandosi sulla Chiesa maronita così chiamata in quanto fondata da san Maroun (monaco
eremita vissuto a cavallo del IV e del V secolo) unica tra le chiese orientali a non avere una corrispondente chiesa ortodossa, segno questo inequivocabile, della ininterrotta fedeltà al Vescovo di Roma.
Proveniente da una modesta famiglia contadina che viveva a Bekaa Kafra, un villaggio della montagna libanese, all’età di 23 anni scappa per entrare nel monastero di Mayfuk dove svolge un anno di noviziato. Cambia il proprio nome con quello di Charbel , un martire dei primi secoli.
Successivamente intraprende una vita monastica ancora più severa presso il monastero di san Maroun ad Annaya, dove emise i voti all’interno dell’ordine libanese maronita. Frequentò la scuola teologica di Kfifan
per diventare sacerdote. Qui condusse una vita di preghiera e di lavoro distinguendosi nella virtù dell’obbedienza e nell’osservanza fedele alla regola. Dopo l’episodio della lanterna miracolosa, che riempita d’acqua e non di olio da un confratello che voleva fargli uno scherzo, illuminò ugualmente la cella del santo, ottenne il permesso di trasferirsi all’eremo dei santi Pietro e Paolo dove trascorse 23 anni conducendo una vita ascetica e di fervente preghiera conquistando la fama di santità per le sue preghiere e benedizioni, fonti di numerosi prodigi.
Il distacco dal danaro, l’obbedienza, la castità, la frugalità nei pasti, il duro lavoro, la preghiera, l’amore per il prossimo caratterizzavano la sua vita con assoluto vigore. Anche la sua morte è stato un evento di grazia. Celebrando la Divina Liturgia, arrivato alla preghiera facente parte del messale maronita lesse: “ O Padre della verità, ecco che il tuo Figlio è vittima atta a placarti, accettalo perché è per me che Egli è morto. Ecco il sacrificio, riceviLo dalle mie mani e sii propizio e non ricordarti più dei miei peccati che ho
commesso al cospetto della Tua maestà… ecco che il Sangue Suo è sparso sul Golgota e intercede per me. Accetta la mia oblazione per riguardo ad Esso. Quanti ne ho di peccati! Ma quanta ne hai di misericordia! Se tu vuoi pesare, prevarrà la Tua clemenza più dei monti, il cui peso è soltanto a te noto… guarda verso i peccati e guarda l’Olocausto che viene offerto per essi. Assai più grandi sono l’olocausto e la Vittima
che le colpe. Giacché io ho peccato il Tuo diletto ha sopportato i chiodi e la lancia. I Suoi patimenti valgano a placarTi e per mezzo di essi io abbia la vita. Gloria al Padre che per noi mandò il suo Figlio,
adorazione nel Figliuolo, che mediante la Sua crocifissione liberò tutti e siano rese grazie allo Spirito Santo, per mezzo del quale ebbe compimento il mistero della nostra redenzione. Benedetto sia Colui che
per amore diede vita a noi tutti. Gloria a Lui”.
Era quanto stava accadendo quel giorno nell’eremo, su quell’altare: Charbel si affidava definitivamente alla misericordia di Dio. Fu al termine di questa preghiera che si accasciò tenendo in mano l’Eucaristia. Dopo otto giorni di agonia l’eremita di Annaya esalò l’ultimo respiro: era il 24 dicembre 1898, all’ora dei vespri. Charbel aveva avuto lo sguardo sempre rivolto all’Eterno e non temeva la morte, passaggio necessario per essere abbracciato dal Padre. La notte prima della sepoltura, un monaco , fra Elias, andò in cappella a pregare dinanzi al Santissimo Sacramento e notò con stupore una luce che si muoveva dal tabernacolo per andarsi a posare sul capo e su tutta la tomba di Charbel. Tale visione non fu presa troppo sul serio dagli altri suoi confratelli. La notte successiva invece, molti contadini dei vicini villaggi (cristiani e musulmani) videro che sul monastero e precisamente nel luogo dove si trovava la tomba, c’era una luce simile a quella generata dalla corrente elettrica (che sarebbe arrivata dopo molti anni ad Annaya).L’episodio servì per la causa di beatificazione.
A quattro mesi dalla morte venne effettuata la ricognizione della salma che fu trovata piena di acqua e fango… il corpo di Charbel sembrava galleggiare su tale melma. Anche se era ricoperto da uno strato di muffa , era intatto e flessibile; la barba e i capelli non avevano subito degrado. Solo la tonaca era logorata. Dai fianchi trasudava un liquido rossastro simile a sangue. Il Patriarca dispose che la bara senza il
coperchio fosse collocata in un luogo riservato, lontano dalla curiosità dei fedeli, per impedire gesti di venerazione non ancora concessi dalla Chiesa in caso di accertata santità. Chiusa dunque la tomba, i monaci pensarono di aver risolto il “mistero”, ma il fenomeno era inarrestabile… continuava ad uscire liquido rossastro dalla tomba.
L’economo del monastero fu incaricato di risolvere questo caso, ma dopo tre anni ancora non riusciva. Il corpo rimase intatto, si pensò di esporlo all’aria, ma il vento orientale che aveva prosciugato la terra e
a volte danneggiato gli alberi, non ebbe alcuna influenza sul suo corpo che continuava a trasudare. Si passò ad estrarre dal corpo con l’aiuto di un chirurgo le sue viscere per interrompere il fenomeno del liquido, ma furono trovate senza alcun segno di decomposizione. Provarono a mettere lo stomaco e l’intestino in una scatola metallica seppellendola sotto un grande albero del monastero, ma anche questo tentativo fallì.
Il corpo di Charbel continuava a trasudare liquido che distribuito tra i fedeli procurava numerose guarigioni. Alla fine si giunse alla conclusione che fosse conservato da una potenza soprannaturale. La
sepoltura definitiva avvenne nel 1957 in una bara di zinco.
Tuttavia, nell’anno del giubileo (1950) alcuni muratori chiamati ad eseguire alcuni lavori, notarono una certa umidità nella parte inferiore della parete che chiudeva la tomba . Pensando ad una infiltrazione lo
riferirono ai monaci. Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio il superiore del monastero, padre Boutros Yunis , accompagnato da tre monaci andò a verificare di persona perché aveva fatto un sogno in cui Charbel gli diceva: “Scorrerà dalla mia tomba un aiuto per tutti i credenti”. La tomba fu aperta e videro che dalla bara ben conservata sgorgava un liquido rossastro… il padre s’inginocchiò esclamando: “Siamo dinanzi a un Santo!” e lo stesso fecero i suoi confratelli. Fu presentata una petizione al Patriarca maronita perché nominasse una commissione medica che esaminasse il corpo e quando questa ebbe terminato il suo lavoro, ne constatò la straordinaria conservazione. La bara fu adagiata ai piedi dell’altare ed esposta alla venerazione dei fedeli. Da quel momento il nome di Charbel era sulla bocca di tutti e beneficiari della sua potente intercessione non erano solo i cattolici, ma anche gli ortodossi e persino i musulmani.
Charbel “un uomo ebbro di Dio” il titolo di una delle prime biografie a lui dedicate.
Cinzia Notaro