Commento al Padre Nostro
La preghiera del Signore è da duemila anni fonte di riflessione, oltre che di devota pratica. Quasi tutti i Padri della Chiesa, orientali e occidentali, ci hanno lasciato preziosi commenti sulla preghiera in generale e sull’insegnamento del Signore in particolare, ognuno dei quali aggiunge una luce diversa alla comprensione di questa preghiera, così densa di teologia e di spiritualità, la preghiera per antonomasia, quella che Dio stesso ci ha insegnato, come fa la più tenera delle madri con i suoi bambini.
Ci permettiamo, qui, di tentarne un commento che sia semplice, senza grandi pretese di scientificità, cercando, secondo l’insegnamento dei Padri, di capire cosa, questa preghiera, così importante per la nostra vita di fede, possa dire oggi a noi uomini e donne del terzo millennio.
Gesù, nel Vangelo di Matteo, è ancora sul monte, circondato dai suoi discepoli, ha parlato loro delle beatitudini, ha prospettato un modo assolutamente nuovo di vivere, secondo una morale molto più esigente della stessa legge di Mosè. I discepoli sono turbati: chi mai sarà in grado di attuare quest’insegnamento? Amare i nemici, perdonare le offese, guardare al cuore e non all’esteriorità dei comportamenti propri e altrui, non ripudiare la moglie, neppure di fronte a motivi considerati dalla legge come validi, considerare un semplice insulto alla pari di un omicidio, tutte queste sono richieste esigenti, così lontane dalla mentalità dell’uomo d’ogni tempo, tanto che ognuno di noi si sente inadeguato, incapace di realizzare queste attese, chi dunque potrà salvarsi?
Di fronte a questa domanda, Gesù indica una via misteriosa. Non è nelle forze dell’uomo la possibilità di vivere secondo quanto piace a Dio, ma Dio stesso può cambiare il cuore dell’uomo, può sostenerlo nel suo cammino verso la perfezione. Occorre però che l’uomo impari a fidarsi di Dio, a chiedere il Suo aiuto, come un bambino fa con i suoi genitori. L’aiuto si chiede nella preghiera, ma perché la preghiera sia efficace occorre che si sappia pregare. Questa idea è centrale in tutte le esperienze religiose umane, è necessario saper pregare, sapere come chiedere e cosa chiedere, se si vuole essere esauditi. È vero che a volte la preghiera è semplice grido, “Signore salvami”, ma è un grido che deve venire dal più profondo dell’animo, è una richiesta d’aiuto nel sommo pericolo; non sempre, però, la preghiera è questo, a volte è richiesta di pace, perdono, conforto, capacità d’amare, bisogno di sentirsi amati. Tutte queste preghiere sono riassunte in modo mirabile nel Padre Nostro, nella preghiera che il Signore stesso ci ha insegnato.
Gesù inizia col dirci come dobbiamo disporci a pregare:
Quando pregate non fate come gli ipocriti che si mettono a pregare nelle sinagoghe o agli angoli delle piazze per farsi vedere dalla gente. Vi assicuro che questa è l’unica loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra in camera tua e chiudi la porta. Poi, prega Dio, presente anche in quel luogo nascosto. E Dio tuo Padre, che vede anche ciò che è nascosto, ti darà la ricompensa. (Mt 6, 5-6)
Ogni ostentazione è abolita dall’insegnamento di Gesù, non si prega per farsi vedere, per mostrare agli altri la propria devozione, perché tutti dicano come siamo bravi, fedeli alle tradizioni, onesti, si prega nel segreto della propria stanza, lì dove è più facile il raccoglimento. La custodia del cuore è necessaria perché la preghiera sgorghi pura e gradita a Dio, non devono esserci distrazioni, sguardi compiaciuti, intorno a noi, perché la preghiera sia efficace. Gesù ci indica Dio come Padre, è un colloquio intimo, fiducioso, esclusivo quello col Padre. Esclusivo non perché esclude gli altri dal nostro orizzonte di preghiera, ma perché a Dio solo si rivolge e solo perché Lui ci ascolti. Ricompensa per chi ama l’ostentazione è l’attenzione e la considerazione degli uomini, per chi prega nel silenzio, l’attenzione e la considerazione di Dio.
Quando pregate, non usate tante parole come fanno i pagani: essi pensano che a furia di parlare Dio finirà con l’ascoltarli. Voi non fate come loro, perché Dio, vostro Padre, sa di che cosa avete bisogno prima ancora che voi glielo chiediate. (Mt 6, 7-8)
Esiste dunque una preghiera che giunge a Dio e una che invece non vi arriva, un modo di pregare che si fonda sulla bravura dell’orante, che si compiace di se stesso, rischia di restare vaniloquio.
Gesù invita i suoi discepoli a non imitare i pagani, a non moltiplicare le parole, ad una sobrietà compunta, considerando bene a Chi essi si stanno rivolgendo. Dio non è l’uomo, ciò che ci rende graditi ai potenti, come lusinghe o un bell’eloquio, non serve con Dio, che scruta i cuori e ne conosce i desideri.
Gesù indica ancora una volta Dio come Padre, che come tale non ha bisogno di lusinghe, di bei discorsi complicati, di giri di parole. Quando ci si rivolge al Padre, col dovuto rispetto, non c’è posto per ipocrisie, ostentazioni, vanità, ma solo per la fiducia e l’abbandono.
Dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli, (Mt 6, 9)
Ci fu un tempo in cui la parola Padre non doveva essere spiegata, in cui essa evocava dignità, rispetto, amore, abnegazione, sostegno, cura dei figli, laboriosità, generosità di sé, oggi è ancora così? Si sperimenta ancora la paternità come una presenza attiva e vitale nell’esperienza della famiglia del terzo millennio? C’è molta confusione sul ruolo dei genitori oggi, ma soprattutto sul ruolo del padre, sempre meno presente nell’esperienza dei figli e sempre meno autorevole, purtroppo.
L’introduzione del divorzio ha portato, nel volgere di pochi anni, ad una precarietà sempre maggiore del tessuto familiare, col conseguente allontanamento del padre, spesso, dalla famiglia e dalle relative responsabilità. Ciò che era eccezionale, che era visto come un fallimento, nella vita delle persone, oggi è considerato normale, la famiglia si scompone e si ricompone con figure nuove, per scomporsi nuovamente, spesso molto più rapidamente. I figli si ritrovano ad avere più figure “paterne” o “materne” contemporaneamente, ad incontrarsi con il padre e con la madre separatamente, magari in contesti allargati, con nuovi fratelli e sorelle. Insomma è venuta meno ogni certezza nei rapporti, quando non sono venuti meno i rapporti stessi.
Spesso, purtroppo, proprio il padre, creandosi una nuova famiglia, considera, magari inconsciamente, i figli del precedente matrimonio, piuttosto come un onere e la relazione con loro diviene puramente economica. Spesso i figli vengono usati come merce di scambio, come fonte di ricatto, contesi o respinti, fonte di ulteriori conflitti. In tutta questa confusione cosa evoca la parola padre?
Anche nelle famiglie ancora unite il padre spesso non ha più l’autorevolezza di un tempo, i genitori divengono “amiconi”, che si lasciano maltrattare dai figli, incapaci di dare una direzione sicura alla loro vita, di essere educatori, di investire parte del loro tempo per stare fisicamente con i loro figli, senza confusione di ruoli. Padri e madri sono troppo impegnati a migliorare le condizioni economiche della famiglia, ad inseguire standard di vita imposti dalla società dei consumi, e oggi, purtroppo, a fronteggiare una crisi economica che pretende un ridimensionamento doloroso quanto difficile da accettare. I genitori diventano “coloro che portano a casa i soldi”, che permettono al figlio di possedere cose come computer, telefono cellulare, motorino ecc., di frequentare i luoghi di ritrovo dove si compiono i riti di massa dello svago, o, aimè, dello sballo. Dove vadano i loro figli, una volta usciti di casa, molti genitori lo ignorano, e non potrebbero non ignorarlo, dal momento che le nostre città sono diventate grandi e strapiene di locali, che la capacità di spostarsi è diventata molto più elevata. La voglia di evasione ha contagiato gli stessi adulti, che spesso non sono in grado di dare ai loro figli un orario preciso e inderogabile di rientro a casa, perché spesso non sono in grado di garantire la loro stessa presenza in casa in quell’orario.
In tutto questo panorama, come può cogliersi l’essere Padre di Dio?
Il bisogno di qualcuno che sia per noi autorevole, che ci aiuti a districarci nel labirinto delle nostre tendenze, dei nostri desideri, nella ricerca di senso, nella faticosa conoscenza di noi stessi, nella costruzione delle molteplici relazioni che compongono la vita di ognuno, è profondamente radicata in noi, soprattutto negli anni della giovinezza. I più ribelli sono proprio coloro che maggiormente avvertono questo bisogno e nel contempo questa carenza di figure guida e reagiscono al disagio, alla sofferenza, causate dal disinteresse reale da parte di coloro che dovrebbero prendersi cura della loro vita, genitori, educatori, insegnanti, con atteggiamenti provocatori e di aperta ribellione.
Il padre è colui che sa guidare, che sa dire no, quando serve, ma che sa premiare e incoraggiare, ma esiste davvero un padre così? La stessa Sacra Scrittura ci presenta padri autorevoli, i patriarchi, con le loro debolezze, Noè si ubriaca e si espone al ludibrio di Cam, il suo figlio più giovane; Abramo mente al Faraone, esponendo la moglie Sara all’adulterio, poi, per compiacerla, scaccia, suo figlio Ismaele nel deserto; Isacco non capisce la volontà di Dio e predilige il violento Esaù, con le sue mogli pagane, al mite, ma virile Giacobbe, Giacobbe non nasconde la sua preferenza per i figli di Rachele, tra tutti i suoi; Giuda procrea con sua nuora; Davide è un adultero e omicida; Salomone, il re sapiente nella sua vecchiaia diventa pagano, schiavo della lussuria e delle sue mille concubine. Esiste, in questo mondo, un padre che sia veramente autorevole, preoccupato esclusivamente del nostro bene, di farci scoprire la verità di noi stessi?
Ecco perché Gesù dice ai discepoli di non farsi chiamare “padre”, solo Dio è veramente “Padre”, solo lui può esserlo, noi siamo imperfetti, deboli, possiamo sbagliare, non possediamo le chiavi del cuore dei nostri figli, a prescindere dalle gravi inadempienze, anche chi è presente, attento, disponibile, preoccupato solo del bene dei figli, non ha la conoscenza profonda necessaria per capire realmente quale sia il loro bene, non può leggere nel mistero dell’altro, solo Dio lo può. Il padre e la madre di questo mondo possono solo avvicinarsi a quello che potrebbe essere bene per i loro figli, comunicare dei valori guida, dialogare con onestà e senza riserve mentali o pregiudizi, ma solo Dio conosce il cuore degli uomini, la verità di ciascuno, il dono più bello che un genitore possa fare è l’educazione nella fede, poi ciascuno deve trovare la propria via di dialogo con il Padre comune, con Dio.
Tutta l’umanità ha Dio per Padre, ma non tutti gli uomini ne sono consapevoli, Dio è un Essere infinitamente distante dall’uomo, nella maggior parte delle religioni, istituite o no, e necessita di una molteplicità di figure intermedie, non comunica con l’uomo direttamente, ma solo attraverso i suoi messaggeri, gli angeli, i profeti, le divinità inferiori, i cristiani possono rivolgersi direttamente a Lui chiamandolo Padre, semplicemente Padre, perché il Suo Figlio si è fatto uomo, ha preso su di sé la fragilità della natura umana elevandola fino alla divinità. Gesù risorto ha portato nella Trinità la natura umana, un pensiero e un mistero che fa girare la testa, l’uomo non è soltanto di fronte al carro di Dio, come nella visione di Ezechiele o di Isaia, essendo parte dei Cherubini o Chaioth, l’uomo è nell’essenza di Dio, unito indissolubilmente alla natura divina in Cristo, con l’incarnazione, il suo sacrificio e la sua resurrezione.
Dio è il Padre, solo Lui può esserlo realmente, solo Lui sa cosa è bene per noi, cosa noi veramente desideriamo e di cosa noi abbiamo veramente bisogno, solo Lui può darci la risposta, perché Lui è la risposta.
Che sei nei cieli,
Cosa vuol dirci Gesù con questa frase? I cieli forse possono contenere Colui che tutto contiene e che nulla può circoscrivere? Non è un luogo fisico quello che Gesù ci sta indicando, ma un “luogo teologico”. Egli ci invita a non posare lo sguardo solo sulla terra, sulle mille preoccupazioni concrete, sulle nostre miserie e le nostre ricchezze materiali, ma a sollevarlo verso le cose di lassù, verso il Padre, per essere aiutati a scoprirne la volontà e a scoprire la nostra vera vocazione, nell’infinito amore che ci dona.
In questo senso Dio Padre è nei cieli, se non ci stacchiamo dall’amore delle cose di quaggiù, che portano solo scontentezza, liti, invidie e sopraffazioni, e non fissiamo lo sguardo nei cieli, non scopriremo mai la bellezza della nostra essenza, l’armonia del progetto divino, di cui siamo un tassello, piccolissimo, ma mai insignificante, la gioia di essere stati amati fino all’effusione del sangue, fino all’estremo quotidiano dono di sé nel pane e nel vino dell’altare, per cui, se è già difficile concepire un Dio che si fa uomo, immaginiamo come sia difficile da accettare un Dio che si fa cibo. Noi diamo queste cose per scontate, perché sin dalla prima infanzia ci sono state ripetute, ma soffermiamoci a contemplare il mistero, è una vertigine: io mangio il mio Dio e Lui, mangiato da me, mi trasforma in sé, mi riempie del Suo amore, mi porta con sé nel vortice dell’infinito, è una meravigliosa follia, se non siamo dei pazzi siamo davvero figli di Dio! Ma la nostra è una lucida follia, una luce per la ragione, che apre l’uomo all’amore per gli altri esseri viventi, alla pietas, a compatire piuttosto che giudicare, ad aprirsi al bisogno dell’altro. Non è un caso che ospedali, orfanotrofi e tutte le strutture di assistenza ai bisognosi di ogni genere, al di fuori della stretta solidarietà familiare, siano nate col cristianesimo e per opera dei cristiani.
E’ vero anche che l’umana natura, con i suoi limiti e con la sua tendenza a strumentalizzare ciò che nasce libero, ha portato anche noi cristiani a commettere scelleratezze nel nome di Dio, ma nessuno può trovare, nel messaggio evangelico, motivazioni teologiche a queste scelleratezze, come purtroppo avviene per altre religioni, ma solo ripetute esortazioni all’amore, al perdono, alla mitezza, nel coraggio delle proprie idee.
I cieli, luogo teologico, dimora di Dio, non sono qualcosa di distante, appartengono alla vita dell’uomo, sono parte del creato, Dio è quindi nel creato, presente e vicino alla nostra esistenza, non semplice ordinatore dell’universo, ma Padre, che dal punto di vista più alto, vede nella nostra anima, nei nostri cuori e nelle nostre vite. Egli sa di cosa abbiamo bisogno, prima e meglio di noi, e, quando sembra che non voglia ascoltarci, è proprio allora che esercita la Sua Paternità secondo il Suo beneplacito.
“Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non avere noia della Sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto”. (Pv 3, 11-12). Recita il Libro dei Proverbi: Il Signore corregge chi ama, come un padre che appartiene ai tempi in cui ancora i genitori educavano. Oggi, in tempi in cui la famiglia è disgregata, in cui spesso i genitori sono i peggiori nemici l’uno dell’altro e i figli divengono oggetto di ricatto, i recettori di accuse reciproche, si può parlare più di correzione paterna? Sembra rimasto solo Dio a correggere chi ama, ma che l’amore passi attraverso la correzione è un’evidenza ormai perduta? persino le leggi e chi deve farle applicare, sembrano congiurare per togliere autorità a genitori, ai quali non rimane spesso più alcuna autorevolezza. Cosa evoca oggi la parola padre? In molti, troppi casi qualcuno che versa gli alimenti. Certo non è così per tutti, ci sono ancora famiglie sane, ma è così per troppi e diventa molto più difficile mostrare la paternità di Dio. Ma quanta sete di paternità c’è nell’anima dei nostri ragazzi e i più insofferenti all’autorità sono i più disperati cercatori di paternità, solo che spesso non ne sono consapevoli.
Sia santificato il Tuo Nome
Gesù ci invita a pregare che il Nome del Padre sia santificato, è questo un invito ad operare perché tutta l’umanità conosca il Suo Nome e possa santificarlo. Solo la preghiera può compiere quest’impresa, perché solo Dio può donare la fede agli uomini di ogni razza e cultura, ma sta a noi portare la Sua parola, fino agli estremi confini della terra.
In tempi in cui la spinta missionaria dei cristiani sembra sia stata spenta da un pluralismo frainteso e mitizzato, il Signore ci invita costantemente a pregare il Padre, perché il Suo Nome sia santificato. Dio non ha bisogno della nostra lode, né delle nostre preghiere, né di noi, eppure si fa mendicante di amore, muore d’amore per noi, si strugge di desiderio per un nostro pensiero, per la nostra attenzione e ci chiama, ci coinvolge nel Suo progetto, si nasconde per essere cercato, si fa trovare, ci mette alla prova, ci corregge, si prende cura di noi e spera che noi ne diveniamo consapevoli: Non si vendono forse due passeri per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate dunque timore, voi valete più di molti passeri! (Mt 10, 29-31).
Portare la testimonianza di tutto questo agli altri, la Buona Novella, l’Evangelo a tutti i popoli della terra, è nell’essenza stessa del cristianesimo. Nessuno ha il diritto di sentirsi offeso dal nostro affermare la verità del cristianesimo, la sua bellezza, la sua grandezza, la centralità e l’uguale dignità di ogni uomo, senza distinzioni di sesso, di età, di razza e di cultura, che esso propugna, vera assoluta novità nelle culture di tutto il mondo, sia antico che contemporaneo.
La vocazione missionaria del cristiano è nella stessa essenza del Cristianesimo, tra i primissimi gesti di Gesù ci fu quello di mandare i discepoli, a due a due, ad annunciare che il Regno dei cieli era giunto, che si compivano in Lui le attese d’Israele e dell’umanità intera, (Mc 6, 7-13). Essi scacciavano i demoni e guarivano gli infermi e si meravigliavano di quanto era stato dato in loro potere di fare. Non è dato a noi di compiere questi segni, ma la Chiesa di Cristo ha costruito nel mondo ospedali per tutti i malati, orfanotrofi e brefotrofi, scuole e collegi, nelle missioni s’insegnano moltissimi mestieri utili, si promuove l’elevazione culturale, economica e morale di tutti i popoli. Tutto questo, al prezzo di grandi sacrifici personali e spesso rischiando la propria stessa vita. Ma il cristiano sa che: chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. (Mt 10, 39).
A fronte però di tanta abnegazione, assistiamo, nel nostro mondo occidentale, troppo sazio e gaudente, nonostante la crisi incombente, all’affermarsi di logiche egoistiche, al diffondersi di una grande rilassatezza dei costumi, insieme ad una mancanza di rispetto per la vita umana, per la natura, per sé stessi. L’uso di alcool, droghe, la pratica disinvolta di un sesso senza amore, spesso irrispettoso della stessa natura, si diffondono in fasce di età sempre più basse. La pillola del giorno dopo rende l’aborto facile anche per le più giovani, la fuga dalla responsabilità, l’assenza di generosità e di veri valori umani, si evidenzia nelle richieste, sempre crescenti di legittimazione dell’eutanasia. La nostra società è ormai quasi completamente scristianizzata, i cristiani sono sempre più una minoranza e per di più spesso confusa e stordita da teorie fuorvianti ed eresie arroganti.
Dio è il Santo, solo Lui è santo, nulla può aggiungersi alla Sua santità, né alcunché può diminuirla, Egli solo può santificare il creato, uomo compreso, cosa può fare l’uomo allora? Riconoscere questa santità, riconoscere la Sua Signoria, in quanto creatore e reggitore dell’universo, accogliere il Suo grande amore per noi e permettergli di insegnarci ad amare, di aiutarci ad essere nuovamente Sua immagine.
Accogliere l’amore di Dio Padre è possibile solo attraverso l’amore del Figlio che, fatto uomo, ha dato la Sua vita per il mondo. Questo mondo disperato, privo di senso, affamato, assetato, senza felicità, ma alla continua ricerca di essa, questo mondo pieno d’ingiustizie, di prevaricazioni, di odio e di violenza, dove si uccide selvaggiamente per un pugno di monete, per un sorso d’acqua, per un metro di terra, dove si attribuiscono a Dio logiche umane, spesso violente e meschine, che schiacciano la dignità umana, non la elevano, ma l’annullano, questo mondo può santificare il Suo Nome? Se nella mia stessa anima convivono pensieri sublimi e bieche meschinità, come posso io santificare il Suo Nome? Io che non sono capace di fare alcunché di buono senza rovinarlo con qualcosa di sbagliato? Come possiamo far sì realmente che sia santificato il Suo Nome, questo è possibile solo a Dio stesso, Egli solo può renderci partecipi al Suo progetto di santificazione del Suo Nome, noi possiamo solo lasciarci fare e non stancarci di annunciare il Suo amore per noi, nonostante tutti i nostri peccati.
Venga il tuo regno
Racconta San Giovanni, nell’Apocalisse, la sua visione del compimento dei tempi, quando, dopo tragedie immense e grandi purificazioni, finalmente la vittoria sui nemici del regno è completa e chi ha resistito alla lotta può goderne.
Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono:
«Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro
Ed essi saranno Suo popolo
Ed Egli sarà il “Dio con loro”
E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate»
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco io faccio nuove tutte le cose»; e soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci.
Ecco sono compiute!
Io sono l’Alfa e l’Omega,
il Principio e la Fine.
A colui che ha sete darò gratuitamente
Acqua della fonte della vita.
Chi sarà vittorioso erediterà questi beni;
io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio.
Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte» (Ap 21, 1-8).
Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, stella radiosa del mattino»
Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita. (Ap 22, 16-17).
I primi cristiani attendevano il Regno di Dio come imminente, in un mondo che gli odiava, che credeva, mettendoli a morte, di rendere un servizio a Dio, secondo le parole del Maestro, in mezzo alle brutture della storia, alla miseria ed all’ingiustizia, alla fame e al freddo, alla schiavitù e alla cattiveria del genere umano, i cristiani speravano che il Signore sarebbe presto tornato trionfante, di vedere la loro speranza compiersi in faccia al mondo scettico e ostile. Hanno ben presto compreso che i tempi del Signore non sono i nostri tempi, che il numero di coloro che erano chiamati a questa speranza, alla salvezza doveva compiersi ancora, hanno imparato la pazienza nella speranza. Poi il mondo è “diventato cristiano”, la nostra società ha incominciato ad essere meno disumana, l’uomo ha cessato di essere considerato giuridicamente una res, una cosa, un oggetto, i bambini non sono più stati esposti nei mercati, ma accolti negli orfanotrofi, ma non è stata asciugata ogni lacrima, non si è creata una società più giusta. La guerra, la fame, le malattie, la morte hanno fatto bottino della nostra umanità e il lupo ha continuato a mangiare l’agnello e il veleno dei serpenti ad uccidere. Poi è arrivato il progresso, l’impegno sociale, la rivoluzione, il delirio materialista, il sogno di un mondo migliore costruito con mani d’uomo ha portato milioni di morti e una montagna immensa di sofferenze, persecuzioni, torture, omicidi, ingiustizie e segregazioni. Duemila anni di storia, dalla venuta di Cristo e duemila anni di sofferenze, non siamo noi che costruiremo il Regno, noi possiamo solo sforzarci di vivere come figli del Regno, cambiando il nostro cuore, ma questo non ci garantirà il successo, su questa terra, spesso sembreremo sconfitti, non per altro abbiamo un Dio crocifisso, come modello ed esempio! I figli del Regno lavorano contro ogni speranza, spesso contro ogni evidenza, per regalare un po’ di conforto, un piccolo scampolo di giustizia, ma con grandi progetti, grandiose speranze. Tornerà a darci ragione e di fronte al mondo, agli increduli, a quanti ci schiaffeggiano con il loro sarcasmo, il loro disprezzo, a quanti ci calunniano e ci diffamano, cercano di metterci a tacere, a quanti ci uccidono in nome di Dio, a quanti ci scacciano dalle nostre case, mostrerà la verità, la reale consistenza della nostra speranza, Lui lo farà e noi lo vedremo! Noi vedremo il Suo giorno, vedremo spuntare l’alba della Sua Gloria e i nostri occhi saranno asciutti e quelli delle persone che amiamo saranno ridenti, perché saremo sempre insieme immersi nella Sua luce. Come possiamo non pregare, con tutto il nostro cuore, con tutta l’anima, con tutto il nostro desiderio: Venga il Tuo regno!
La nostra vita è una lotta, contro le potenze del mondo, ma soprattutto contro i nostri istinti, i nostri desideri, i nostri dubbi, una lotta che finirà solo con l’ingresso nella vera vita, con l’ultima battaglia; non a caso, gli istanti prima della morte sono detti agonia, essi sono il teatro dell’ultimo assalto, la preghiera continua nostra e delle persone che ci amano, qui sulla terra e lassù nel cielo, deve farci da scudo, soprattutto in quei momenti, ma l’esito di questa lotta è meraviglioso: vedremo Dio faccia a faccia e in Esso la verità di noi stessi e berremo alle fonti della vita, quell’acqua che spegne ogni sete. Il Suo Regno per noi si compirà alla fine della nostra fatica terrena, per il mondo solo il Padre sa quando.
Sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra
Gesù ci invita pregare perché la terra si conformi al cielo nel compiere la volontà del Padre. Non ci sono dubbi che in tutto l’universo la volontà di Dio è sovrana e se Dio è onnipotente, anche sulla terra la Sua volontà è sovrana, per cosa dunque dobbiamo pregare? Su questa terra troppo spesso l’uomo si mette in contrasto con la volontà del suo Creatore, come ciò è possibile? Come può la volontà dell’uomo cercare d’impedire che si compia quella di Dio? Dio ha creato l’uomo a Sua immagine, quindi gli ha donato una grande libertà e come il figlio, diversamente dal servo, può disubbidire e lasciare la casa del padre, ove c’è sicurezza e benessere, ma bisogna seguire delle regole, così l’uomo, non semplice servo, ma immagine del suo Creatore, fu creato libero di scegliere la sua strada. E l’uomo la scelse, contro l’invito di Dio a non staccarsi dalla Sua amicizia, e volle essere legge a sé stesso. Da quella scelta sciagurata, dal primo peccato, dalla prima disubbidienza sono scaturiti, non solo una serie infinita di peccati, di violenze, di sopraffazioni, ma un atteggiamento mentale di rivolta contro la volontà di Dio e in ultima analisi contro la natura e le sue leggi. Il primo peccato introdusse il disordine nella creazione, ruppe gli equilibri stabiliti, tutte le leggi della natura e dello spirito furono sconvolte, la morte entrò a turbare ciò che era destinato alla felicità. Come realmente questo sia accaduto non ci è dato di saperlo, ma gli effetti di questo evento sono sotto i nostri occhi. La legge che Dio consegnò a Mosè, nel suo nucleo fondamentale, se applicata da tutti, renderebbe nuovamente questo mondo un giardino, un Pardes, ma non è nelle capacità dell’uomo metterla in pratica e quella stessa legge diviene pietra d’inciampo, perché rivela a noi stessi e al mondo il nostro peccato, come dice San Paolo: «Ora noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge “nessun uomo sarà giustificato davanti a Lui” (Sal 43, 2), perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato»(Rom 3, 19-29).
«Sia fatta la tua volontà» questa preghiera chiede che sia ricondotto il mondo intero al Padre e questo solo Gesù poteva insegnarlo, perché solo Lui, con il suo sacrificio obbediente, ha permesso che ciò fosse realizzabile.
Continua San Paolo nella sua Lettera ai Romani: «Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito » (Rm 8, 1-4).
Solo l’essere in Cristo rende l’uomo capace di essere figlio e, come tale, essere legato al Padre, non da legami servili, ma da legami d’amore, capace per amore di unirsi al sacrificio di Cristo e combattere, con il Suo aiuto, la battaglia, perché il bene trionfi e la Sua volontà sia cercata, amata e rispettata su questa terra come lo è nel cielo.
Scrive ancora San Paolo: «Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8, 14-17).
In quanto figlio di Dio per adozione, il cristiano è figlio della luce e come tale deve comportarsi, la carità è il segno distintivo del cristiano, è parte della sua sostanza, deve solo acquisirne una sempre maggiore consapevolezza, perché il battesimo gli ha conferito la possibilità di rispondere al progetto di Dio, a causa del sacrificio di Cristo. La carità riassume in sé tutta la legge, ne costituisce la sintesi. Scrive ancora san Paolo, nella Lettera ai Romani:
«Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge, infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore.
Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne e i suoi desideri» (Rm 13, 8-14).
Questa è la volontà di Dio, che deve essere realizzata dall’umanità intera e Gesù ci invita a pregare il Padre perché renda tutti capaci di desideri di giustizia e di carità, perché la terra si uniformi al cielo.
Ricercare, poi, in modo più specifico, la volontà di Dio, nella nostra vita, cercare di capire il Suo progetto su di noi e seguirlo è compito di ognuno di noi, ma ci sono momenti della vita in cui la Sua volontà ci appare chiara e momenti in cui si comprende con difficoltà cosa il Signore voglia da noi e, se vuole qualcosa, perché la voglia proprio da noi. Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’ profetizza al mio popolo Israele…(Am 7, 14-15) Lasciarsi guidare dalla volontà di Dio, abbandonarsi a Lui non è sempre facile, anzi, parafrasando, è sempre “non facile”, perché i desideri della carne sono in noi e ci spingono verso altre strade, l’ansia di vedere i risultati dei nostri sforzi a volte ci porta allo scoraggiamento, i tanti fallimenti che accompagnano il nostro cammino, il senso d’inadeguatezza e spesso d’impotenza di fronte al male, rendono faticoso un carico che, come dice il Signore, è in sé leggero. È leggero se ci si lascia aiutare da Lui a portarlo e non si pensa di dover fare affidamento sempre e solo sulle nostre forze. Se si punta sulla propria autosufficienza, sulle proprie capacità, si rischia di essere schiacciati dagli eventi esterni e dalle spinte dei propri desideri.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Dacci oggi il nostro pane “soprassostanziale”, ci viene insegnato che sia la traduzione più corretta. Il “pane soprassostanziale” è l’Eucaristia, il Corpo di Cristo offerto sulla croce per noi e donatoci come cibo per l’anima e per il corpo, nell’ultima cena; frutto di una kénosis ancora più profonda, di un annullamento di sé che porta Gesù dalla gloria del Padre, passando attraverso la miseria della nostra umanità, addirittura a farsi pane.
Gesù dona sé stesso come cibo, il Suo sangue come bevanda per la salvezza dell’uomo. La tradizione dei Padri ci insegna che, se non mangeremo fisicamente il corpo di Cristo e non berremo il Suo sangue, durante la nostra vita terrena, il nostro corpo non potrà prendere parte alla resurrezione, ma anche la salvezza della nostra anima passa attraverso un gesto quale il mangiare e il bere, così profondamente umano.
Gesù stesso ci dice: «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». (Gv 6, 48-51)
L’assurdità apparente di queste parole, che violano uno dei tabù più profondamente radicati nella nostra civiltà, è resa bene dallo sgomento dei giudei:
«Come può costui darci la sua carne da mangiare?» e a questa profonda perplessità Gesù risponde: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno» (Gv 6, 53-58).
Molti degli stessi discepoli se ne scandalizzarono e lo abbandonarono e gli stessi apostoli erano perplessi, ma rimasero: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 68), è la confessione di san Pietro, che riassume in sé tutta la nostra fede.
Questo pane del cielo Gesù lo consegnerà alla Chiesa, rappresentata dai suoi apostoli, durante l’ultima cena e lo ribadirà nelle Sue apparizioni, dopo la risurrezione, lasciandoci un dono incommensurabile, un aiuto prodigioso, un mistero da contemplare.
Gesù risponde alla domanda dei discepoli: come può costui darci la sua carne da mangiare? Quando, durante l’ultima cena: Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: « Prendete e mangiate; questo è il mio corpo ». Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel Regno di mio Padre » (Mt 26, 26-29). Non la carne che costituiva la sua essenza fisica in quel momento, non il sangue che circolava nelle sue vene durante la sua permanenza sulla terra e che sarà sparso al suolo per noi, egli lascia in cibo per noi, ma il pane e il vino, frutti santi del lavoro dell’uomo, che misteriosamente e miracolosamente cambiano la loro sostanza, non la loro apparenza, per diventare corpo e sangue di Cristo, per opera dello Spirito Santo e nelle mani dei suoi consacrati. È questo un mistero grande di amore e donazione di sé, che rende la nostra vita di fede così assolutamente unica e irripetibile, diversa da ogni altro tentavo di esperienza religiosa: noi ci nutriamo del nostro Dio, non in astratto, con bei discorsi e bei concetti, non con strane meditazioni o arrampicate mistiche, ma nel concreto del gesto più umano e indispensabile alla vita: il mangiare.
Ci nutriamo di Cristo, ma questo nutrirci di Lui non può prescindere dal vivere nella Sua volontà, nella Sua pace, nella condivisione del Suo abbandono al Padre e della Sua generosità di sé.
Chi è in Cristo è una creatura nuova, le cose di prima sono passate, ecco ne sono nate delle nuove… scrive San Paolo.
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Chi non è consapevole di essere bisognoso di perdono, non è disposto neppure a perdonare. Quante volte sentiamo questa frase: Devo “confessarmi? E quali peccati ho commesso? Io non ho fatto nulla di male!” Se escludiamo l’omicidio, l’adulterio, il furto, sembra che per i nostri contemporanei il peccato non esista. La coscienza morale si è spenta, la stragrande maggioranza delle persone non si percepisce bisognosa di perdono né da Dio, né dagli uomini. Ci si sente buoni, perfetti, non si percepisce neppure il male che si fa agli altri, non solo con le azioni, ma con le parole, con le omissioni. Il peccato di omissione è quello meno conosciuto, l’indifferenza è normale ingrediente della vita di oggi. Si trascurano i figli, salvo riempirli di oggetti per lo più superflui, si abbandonano i genitori anziani, non ci si accorge neppure dei bisogni degli altri, non si frequenta la Messa domenicale, non si partecipa ai Sacramenti, non si aiuta chi è nel bisogno, non ci si ferma a scambiare anche una sola parola con chi è solo, ma non per questo ci si percepisce come peccatori, inadempienti a dei precisi doveri morali. Si parla male dei vicini, dei parenti, dei colleghi di lavoro, spesso colorando episodi in sé sgradevoli, con tinte molto più fosche, per generare interesse e simpatia in chi ascolta, si sparla un po’ di tutti, il pettegolezzo più brutale è proposto in televisione o alla radio, come sistema di vita, come modo normale di relazionarsi, lo si chiama gossip, si pubblicano riviste e giornali pieni di maldicenze e spesso di calunnie, e tutto ciò è spacciato per normale, per lecito, legittimo, si chiama la calunnia libertà di stampa, la diffamazione libertà d’informazione, e nel privato si seguono gli stessi modelli, ma non ci si sente affatto in colpa per tutto ciò, anzi …!
Dio è scomparso dal nostro orizzonte, la coscienza è stata imbavagliata in nome di una fraintesa libertà, libertà sessuale, libertà di fare esperienze, di tradire, di trasgredire, di usare il proprio corpo come puro veicolo di piacere, come mezzo per irretire, attirare a sé gli altri, ma solo per gioco, per interesse, per mestiere. Siamo in un mondo in cui la verginità non è più percepita come un valore, ma piuttosto come il sintomo di problemi psicologici e di relazione, la castità è stupidità e dabbenaggine, lo spirito di sacrificio è scambiato per vittimismo o esibizionismo, il pudore con ipocrisia, l’onestà con mancanza d’iniziativa e di abilità negli affari, insomma viviamo in un mondo in cui i valori sono ribaltati, in cui i desideri dell’uomo sono diretti solo al possesso di cose e all’affermazione di sé attraverso il potere e il denaro. In questo mondo nessuno si sente colpevole, neppure chi uccide, stupra, rapina o deruba il prossimo si sente colpevole, e le pene comminate dalla nostra giustizia gli danno ragione, la vita umana non ha più alcun valore se un pluriomicida spesso è in giro dopo pochissimi anni, pronto ad uccidere ancora.
Rimetti a noi i nostri debiti … verrebbe da chiedersi quali? Siamo diventati tutti perfetti! Di cosa dobbiamo chiedere perdono?
Quando si parla, però, di perdonare gli altri, il discorso cambia: se questi hanno, o riteniamo che abbiano mancato in qualcosa, nei nostri confronti, allora il discorso della colpa e del perdono si fa serio, tanto siamo inconsapevoli delle nostre mancanze, tanto siamo severi giudici degli altri, pronti a “fargliela pagare cara”, a togliere il saluto, a cospirare, a meditarne la distruzione morale e sociale, in una parola a vendicarci. Sintomo grave di questa malattia della coscienza morale è la disgregazione della famiglia. La famiglia è il luogo primario in cui questo crollo etico si manifesta. Pochissimi ormai prendono sul serio l’impegno assunto nel matrimonio, dal momento in cui la sua indissolubilità è stata annullata, dal momento in cui esso è stato, nei fatti, equiparato alla mera convivenza, l’interesse dei figli a vivere in un ambiente sereno, in cui padre e madre collaborino nella grande missione di istruire ed educare la prole, è solo stabilito a parole, nei fatti è disatteso anche dalle stesse leggi. Siamo di fronte ad una dilagante immaturità, ad un egoismo infantile che si protrae negli anni, ad un’adolescenza che arriva fino alla vecchiaia, nell’inseguimento di modelli vuoti e puramente estetici ed edonistici. Siamo tanti figli snaturati nella fase della dissipazione, ci siamo fatti consegnare la nostra parte di eredità, e nella ricerca sfrenata di un’autonomia totale, stiamo sperperandola. Ci ritroveremo seduti su di un cumulo di rifiuti? Capiremo di aver preso una strada che porta solo all’autodistruzione della nostra società? Riusciremo a rialzarci e tornare al Padre, saremo ancora in tempo? Troveremo le energie morali necessarie per uscire da questa crisi, che lungi da essere semplicemente economica, è una vera crisi di valori?
Mai come oggi “rimetti a noi i nostri debiti” deve diventare un grido, un grido carico di angoscia, di consapevolezza delle proprie miserie ma anche di speranza e di fiducia nella misericordia del Padre.
Il perdono è un dono di Dio, solo Lui, perdonandoci, ci rende in grado di perdonare, questa preghiera non comporta tanto una condizione, non sarai perdonato se non perdonerai, quanto una richiesta precisa: donaci il perdono e la capacità di perdonare a nostra volta i nostri fratelli che hanno mancato verso di noi. Perché nel comune riconoscimento di essere peccatori si crea la solidarietà e la capacità di superare le offese, grandi o piccole che siano.
Non ci indurre in tentazione
Dio permette la tentazione, per metterci alla prova, tutta la nostra esistenza è una prova, in essa dobbiamo dimostrare di essere degni dell’adozione a figli di Dio che gratuitamente ci è offerta. Queste parole, che un tempo erano considerate normali, perché tutta l’esistenza era basata sul merito, sulla retribuzione delle proprie azioni, sull’assunzione di responsabilità nei confronti della vita stessa, di sé stessi, dei propri familiari, della società in generale, oggi suonano come estranee, ingiuste, troppo dure. In una società dove tutto ci è dovuto, dove la felicità è un diritto da rivendicare con forza, dove il dovere è una parola caduta in disuso, odiosa, antiquata, queste parole hanno perduto il loro senso, sono diventate incomprensibili, fastidiose. È vero, Dio salva gratis, non meritis, lo afferma la Chiesa, sulla scia di Agostino, non con le mie forze posso salvarmi, ma in virtù del sacrificio di Cristo che ha aperto le porte alla misericordia di Dio, ma qual è il mio ruolo in questa dinamica di salvezza? Posso vivere la mia vita chiuso nel mio egoismo, sgomitando qua e là, camminando sui corpi degli altri uomini, perché in fondo non ho chiesto io di nascere e non sono tenuto ad occuparmi del mio prossimo, a collaborare al bene comune, ma solo a cercare di vivere la mia esistenza nel modo più comodo, proficuo, facile e divertente possibile. La sola idea della tentazione come di qualcosa da cui guardarsi, in cui non cadere, è venuta meno, anzi, ha acquisito spesso, nel linguaggio delle immagini, della pubblicità, dei media, un’accezione assolutamente positiva, intrigante, invitante, è diventata il nome di un profumo, di un gelato, in una società in cui il vizio è spesso esaltato e il fortunato è chi può dare sfogo alle sue pulsioni senza limiti, comprando il piacere a piene mani. Non ci indurre in tentazione, presuppone il senso del peccato, la coscienza vigile, la percezione della vita come impegno, come ricerca di senso ultimo, di eternità, di verità. In un mondo in cui il relativismo morale è assoluto non c’è posto per il dovere di tenere a freno gli istinti, di fuggire le tentazioni, di evitare le situazioni di peccato. I comandamenti sono visti come retaggio di una società arcaica, il diritto naturale è negato, è considerato una sovrastruttura sociale, come tale soggetta a mutamento, la famiglia non è rispettata e si moltiplicano gli attacchi alla sua compagine, alla solidarietà in un progetto comune di vita, dei suoi membri, si crea una confusione di ruoli, madri e padri si moltiplicano, figli di primo, secondo, terzo letto, si dividono le attenzioni di genitori sempre più distratti e stressati dal peso di moltiplicati impegni, anche economici. In questa situazione di polverizzazione della coscienza, la frase non c’indurre in tentazione che significato può avere? Stiamo fallendo la nostra prova, abbiamo cancellato il cielo dal nostro orizzonte, la speranza di un mondo nuovo, la speranza del Regno: Il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Questa domanda taglia come una spada, è uno schiaffo sul volto dell’uomo, stiamo sbagliando è necessario che ce ne rendiamo conto e cerchiamo di recuperare quelle poche energie morali che pure ci sono rimaste, la nostra preghiera deve farsi grido:
Liberaci dal male!
Liberaci Signore da tutto questo male che è in noi, nella nostra società, nella mentalità dominante, liberaci da chi vuole farci credere che libertà è fare ciò che si vuole, che possiamo decidere da soli cosa è bene e cosa è male, che possiamo eliminare Dio dalle nostre esistenze, liberaci da questo delirio di autosufficienza, dal dominio del peccato originale, liberaci dall’egoismo, dalla sfrenata ricerca del piacere che brucia il cervello di tanti nostri giovani, dalla ricerca del successo a tutti i costi, dal ridurre l’essere all’avere, dalla mancanza di generosità, dalla distrazione e dal disinteresse per la vita degli altri, dal disprezzo per gli umili e gli ultimi. Liberaci Signore dall’ipocrisia che ci costringe a pensare e parlare secondo schemi precostituiti, dall’ignoranza che non ci fa vedere le ragioni degli altri. Liberaci dalla droga, dalla violenza, dall’abuso di alcool, dall’incoscienza di chi si mette alla guida di un’auto con uno stato di coscienza alterato, dal sesso senza amore, dalla pedofilia, dalla fornicazione, dalla ricerca smodata del piacere, dal denaro facile, dalle lotterie, dai maghi e dai ciarlatani a cui affidiamo il nostro destino, dai detentori del potere corrotti ed egocentrici, dagli esibizionisti, dalla malafede, dalle mafie, dalle lobbies, da chi decide dei destini di milioni di esseri umani, da chi distrugge i prodotti della terra indifferente al grido di dolore dei popoli affamati, dalle quote latte, dal protezionismo, dai trafficanti di morte, dai mercanti di uomini, dai mercanti di organi, dai congelatori di vite umane, dai genitori che vogliono scegliere il sesso, il colore degli occhi e dei capelli, dei propri bambini, liberaci Signore dal male di una società senza valori, dal male che entra in noi sotto forma di libertà e avvelena le nostre menti, fino a farci sembrare giusto ciò che è sbagliato, naturale ciò che è contro natura, vero ciò che è profondamente falso.
Donaci Signore uno sguardo libero, realista, donaci un cuore puro, metti dentro di noi uno spirito di verità, donaci la santità che solo Tu puoi darci, che la comunione con Te ci sia guida in questa prova che è la vita, attraverso tutti questi pericoli che ci assediano, che assediano i nostri figli, donaci energie morali tali da allontanarci dalla rovina, che incombe sulla nostra società.
Roberta Simini