Consumismo e Spirito religioso
Il consumo di merci è il motore del nostro modello di economia, che, com’è noto, ha le sue radici nel XVIII secolo nella rivoluzione industriale, quando grazie allo sviluppo tecnologico, che consentiva la produzione di quantità di beni in modo esponenziale e in serie, il capitalismo commerciale cedette il passo al capitalismo industriale. Il fenomeno lo descrive efficacemente e con chiarezza Massimo Fini: “l’industrialismo prima dilata enormemente l’offerta di beni esistenti producendo su scala e a minor costo ciò che in precedenza era fatto artigianalmente. In un secondo tempo, col progredire della scienza tecnologicamente applicata, produce beni nuovi, stimola ed inventa bisogni che prima nessuno sapeva di avere e di cui, per la verità, non aveva mai sentito il bisogno. L’industrialismo, a differenza del commercio, non si limita a trasferire beni, li crea. E una volta che li ha creati ha la necessità di venderli. Si scopre la pazzesca legge di Say: <<l’offerta crea la domanda>>. Si scopre La natura illimitata di bisogni o, piuttosto la facilità con cui gli esseri umani si lasciano influenzare. Si scopre che i bisogni possono essere eterodiretti, suscitati artificialmente dall’esterno. Nasce il consumatore.” (1).
Non meno incisiva è l’analisi del filosofo tradizionalista Evola: “Una volta perduto o deriso ogni interesse per quel che il vivere può dare in relazione ad un <<più che vivere>>… al principio tradizionale della limitazione del bisogno entro i quadri di una economia normale, cioè di una equilibrata economia di consumo, doveva sostituirsi il principio dell’accettazione e della moltiplicazione del bisogno, in stretta relazione con la cosiddetta rivoluzione industriale e con l’avvento della macchina. Il progresso tecnico ha condotto automaticamente dalla produzione alla superproduzione… i rapporti fra bisogno e macchina (lavoro) si sono del tutto capovolti: non è più il bisogno che chiede il lavoro meccanico, ma è il lavoro meccanico (la produzione) che ha bisogno del bisogno. In regime di superproduzione, a che tutti i prodotti siano venduti occorre che i bisogni dei singoli, lungi dall’essere ridotti, siano mantenuti ed anzi moltiplicati, in modo che sempre più si consumi e si tenga sempre in moto il meccanismo – pena il giungere ad un ingorgo fatale che imporrebbe una di queste due conseguenze: la guerra… ovvero la disoccupazione.” (2). Due elementi sono, dunque, da tener presenti in questo fenomeno economico: in primo luogo il consumismo si lega strettamente al capitalismo industriale ed in secondo luogo è accortamente e necessariamente diretto dalla pubblicità commerciale che fabbrica falsi bisogni. Suo emblema è la Coca Cola, una bevanda artificiale nata nel ‘900, di cui gli uomini per millenni non avevano mai avvertito il bisogno, essendo bastevoli l’acqua, il vino, la birra, il sidro. I prodotti “usa e getta”, i beni non durevoli ne sono l’applicazione più visibile. Nella civiltà della produzione e del consumo perfino i bisogni reali non trovano corrispondenza nei prodotti naturali. E si potrebbe, a questo proposito, citare la raccomandazione, tra il serio e il faceto, di Maurice Bardeche: “Se vi piacciono le carote non andate in America! Lì la carota è introvabile nella forma che la natura le ha dato. La si trova congelata, in polvere, in compresse. Tra voi e la carota s’interpone una mezza dozzina di industriali.” (3).
In fondo la grande scoperta del capitalismo, ci spiega l’ecologista Rutilio Sermonti, “fu che conviene allentare anche parecchio i cordoni della borsa per incrementare la domanda, purché questa preceda sempre di un passo l’offerta.” (4) Sennonché, “perché uno compri checchessia ci vuole una esigenza materiale, magari voluttuaria e soggettiva ma sempre esigenza. Ora anche le esigenze materiali, come tutto ciò che è sotto il sole, sono limitate. Un gaudente, un debosciato ne avrà di più, ma sempre una certa quantità, soddisfatte le quali, se ne ha d’avanzo, tenderà a tesaurizzare per i discendenti. Lo spettro della sovrapproduzione sembrò di nuovo ergersi sinistro dinanzi ai ricchissimi poveracci. Ma ecco soccorrerli il solito fervido ingegno, la mancanza di ogni scrupolo e la conoscenza delle debolezze della gente. Anche le esigenze si possono fabbricare, perbacco! Questa fu l’ultima scoperta capitalista.” (5). Possiamo a questo punto considerare il consumismo, non a torto, l’ultima spiaggia del capitalismo. E’ un meccanismo infernale che umilia gli uomini facendone dei “consumatori”, cioè degli individui subalterni ai dogmi dell’economia sovrana: non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre. In un suo lucido e profetico saggio del 1922 lo scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle già ci metteva in guardia contro questo “delirio che acceca gli uomini” (6). Se il principio che regola la produzione (che cosa e come produrre) non è costituito dai bisogni reali della gente e dai limiti naturali, bensì dal profitto a qualunque costo, ne consegue che l’imperativo della nostra epoca è la crescita: produrre e consumare sempre di più! E’ una sorta di assioma che accomuna economisti di scuola liberale e marxista, sindacalisti e uomini politici di destra e di sinistra. Quante volte abbiamo sentito il folle auspicio: “bisogna aumentare i consumi per aumentare la produzione!” E’ il consumismo che aiuta a scongiurare le crisi di sovrapproduzione, che sono il tarlo segreto, la paura rimossa degli speculatori e dei grandi manovratori dell’economia internazionale. Ne abbiamo avuto un esempio recente, dopo la famosa crisi del 1929, nel 2008, con la crisi dei subprime partita dagli USA. Ma cediamo la parola a Maurizio Pallante: “la crisi degli istituti di credito americani che nell’estate del 2008 ha dato avvio alla più grave recessione mondiale, ben più grave di quella del ’29, è stata causata dalla concessione di mutui a clienti inseriti nella categoria di minima affidabilità (subprime) nel tentativo di tenere alta la domanda di case per impedire che un eccesso di offerta mettesse in crisi l’industria dell’edilizia.” (7). Sennonché il consumismo non è solo un fenomeno economico, esso travalica la sfera economica, avendo precisi e devastanti risvolti esistenziali, sociali ed ecologici. Sotto il profilo psicologico ed esistenziale è ormai classica l’analisi del filosofo Erich Fromm, che per l’uomo della società industrialmente avanzata ha coniato il significativo termine di homo consumens: “L’uomo si è trasformato in homo consumens. E’ vorace, passivo, tenta di compensare il proprio vuoto interiore appunto con consumi continui e sempre crescenti, e molti sono gli esempi di questo meccanismo, costituiti da casi di bulimia, coazione all’acquisto, alcolismo, come reazione alla depressione e all’ansia. L’homo consumens consuma sigarette, liquori, sesso, pellicole cinematografiche, viaggi, e lo stesso fa con istruzione, libri, conferenze, arte. L’uomo appare attivo, <<eccitato>>, ma nel profondo è ansioso, solitario, depresso, annoiato” (8). Tale analisi è confermata dai fatti e dalle statistiche: “I suicidi, in Europa, sono decuplicati rispetto all’era preindustriale: erano 2,5 per 100 mila abitanti nel 1650, sono 20 per 100 mila oggi.
Nevrosi e depressione, pressoché sconosciute nel mondo di ieri, sono malattie della Modernità. Si affacciano agli inizi dell’Ottocento, non a caso negli ambienti borghesi, mercantili, e quindi agiati, diventano un problema sociale delle classi benestanti fra Ottocento e Novecento, tanto che nasce la psicanalisi (Freud), per esplodere poi, come segno di un disagio acutissimo, che permea l’intero Occidente, più o meno dopo la seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel paese di punta del modello, il più forte, il più potente, il più ricco, più di un abitante su due non sta bene nella propria pelle, non regge la società in cui vive.” (9). Drieu, da par suo, riassumeva tutto questo lapidariamente e magnificamente: “il materialismo consuma il materialista.” (10). Gli effetti nefasti dell’industrialismo da un punto di vista ecologico sono sotto gli occhi di tutti e non occorre dilungarsi: più produzione significa, infatti, più consumo di merci, di suolo, di risorse rinnovabili e non rinnovabili, più rifiuti, più inquinamento, più degrado ambientale. Non è un caso se la nostra società è stata ribattezzata dagli ecologisti società dei rifiuti. C’è peraltro una data simbolica nell’anno in cui la domanda di risorse dell’umanità oltrepassa in quantità quelle che la Terra può spontaneamente rigenerare, e che viene indicata col termine tecnico overshoot day, cioè giorno del sovraccarico ecologico: “fino alla metà degli anni ottanta del secolo scorso i consumi di risorse rinnovabili e le emissioni di anidride carbonica non hanno superato le capacità di rigenerazione del pianeta. La svolta è avvenuta nel 1986, quando le risorse rigenerate dalla biosfera nel corso dell’anno si sono esaurite il 31 dicembre. Da allora i consumi e le emissioni le eccedono in misura sempre maggiore.” (11) Questo sovraccarico ecologico è cresciuto di anno in anno, secondo un’allarmante progressione: negli anni novanta è stato registrato nel mese di novembre, nel 2008 il 23 settembre, nel 2010 il 21 agosto. Nel 2018 il 1° agosto! Con la conseguenza che per soddisfare le esigenze dell’attuale umanità, fermi restanti gli altri fattori (popolazione, dissesto idrogeologico, ecc.), già ora occorrerebbero 1,7 pianeti. Sul piano etico, poi, la civiltà della produzione e del consumo ha contribuito a degradare l’umanità dell’uomo, portando “l’inquietudine, l’insoddisfazione, il risentimento, l’incapacità a possedersi in uno stile di semplicità, di indipendenza e di misura, la necessità di andare sempre più innanzi e sempre più rapidamente… ha sospinto l’uomo sempre più oltre, ha fatto nascere in lui il bisogno di un numero sempre maggiore di cose, lo ha dunque reso insufficiente e impotente – ed ogni nuova invenzione, ogni nuova escogitazione tecnica, invece che una conquista, segna una sconfitta” (12). Di fronte a questa situazione ci troviamo come un giocatore di scacchi che prevede di subire uno scacco matto tra poche mosse, ma che forse ha ancora una piccola possibilità di fare la patta. Salvo che non si creda alla funzione pedagogica delle catastrofi prossime venture. O che si voglia sventolare bandiera bianca, come nel ritornello d’una nota canzone di Battiato. Che cosa si oppone dunque alla cultura consumistica? E’ presto detto: lo spirito religioso, lo spirito evangelico in senso lato (appartenente a tutti i grandi maestri da Gesù a Confucio, da Budda a Platone, a Nietzsche). Quello spirito che ci ricorda che forse non tutto si esaurisce nel breve volgere della nostra vita e nel nostro io; che fa tutt’uno con la filosofia che “riflette sullo stupore di nascere e l’angoscia di finire” (13); che ci fa volgere lo sguardo oltre il rigagnolo nel quale siamo immersi per indirizzarlo verso le stelle; che ci libera dall’ansietà dell’avere e fa risuonare dentro di noi le immortali parole di Gesù nel discorso della montagna: “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli dei campi, non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.” (14) Quello che occorre è, in definitiva, una rivoluzione spirituale che cambi nel profondo l’uomo. Come scriveva Drieu, “l’uomo oggi ha bisogno di ben altro che inventare machine. Ha bisogno di raccogliersi, di cantare e danzare, una grande danza meditata, una discesa nel profondo.” (15)
- Massimo Fini, Il ribelle dalla a alla z, p. 83, Marsilio, 2014;
- Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, p. 376, edizioni Mediterranee, 2010, (1^ ed. 1934);
- Maurice Bardeche, Sparta e i sudisti, p. 49, edizioni AR, 2013;
- Rutilio Sermonti, L’uomo, l’ambiente e se stesso, p.65, Settimo sigillo, 1992;
- Ibidem, p. 65-66
- Pierre Drieu La Rochelle, Misura della Francia, p. 122, Idrovolante edizioni, 2017;
- Maurizio Pallante, Debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice, p. 13-14, edizioni per la decrescita felice, 2012;
- Erich Fromm, La disobbedienza ed altri saggi, p. 120-121, Mondadori, 1982;
- Massimo Fini, op. cit., p. 151-152;
- Pierre Drieu La Rochelle, Diario di un delicato, p. 34, SE, 1998;
- Maurizio Pallante, Meno e meglio, p. 29-30, Bruno Mondadori, 2011;
- Julius Evola, op. cit., p. 376-377;
- Marcello Veneziani, Dio, patria e famiglia, p. 143, Mondadori, 2012;
- Mt. 6, 22-27;
- Pierre Drieu La Rochelle, Socialismo fascista, p. 118, EGE Edizioni generali europee, 1973.