Dai dialetti alle App. Un linguaggio che dilania le culture.
Il conformismo del linguaggio è una sconfitta delle identità. I dialetti sono macerie. Le cosiddette App sono il progresso di uno sviluppo nella nostra contemporaneità che lacera tradizione ed identità. Le lingue meridionali sono un raggruppamento di dialetti e formano una sola lingua con diverse forme di parlate e parlanti? Le lingue o i dialetti o la lingua con le parlate stesse si reggono all’interno di una antropologia legata strettamente al luogo ovvero all’abitare-abitato. Parola e luogo nel Sud sono il vero mosaico, i cui tasselli sono divergenti e convergenti. Il dialetto può essere, in una cultura oltre le masse, risaliente? Ormai in modo sbilenco ci vogliono far credere che si è entrati in una antropologia del risaliente, termine di una leggerezza che più che leggerezza stretta diventa vuoto di idee e di pensiero. Oltre che di contenuti. Comunque!
Amalgamare le parole intorno ad una lingua è impossibile. Ci sarebbero deformazioni e tagli, suoni e ritmi, captazioni e deformazioni di geografie in contraddizione tra luogo e linguaggio. Le geografie servono non solo a localizzare, ma anche a registrare la bussola di un vocabolario in cui non si custodiscono lemmi e parole ma storie, identità ed eredità del linguaggio nelle lingue. Ma la tecnologia è la più condizionante omologazione di una società senza eredità e spiritualità. La resilienza è una metafisica?
Ciò che una volta i linguisti definivano “ceppi” vocabolaristici, oggi, non sono più tali. Le contaminazioni hanno invaso così tanto le lingue che gli stessi incavi linguistici sono diventati preistorici percorsi. I primitivismi sono bibliografia. Bisogna fare i conti con una lingua che si è totalmente modificata e i dialetti sono diventati e considerati frammentazioni senza senso nelle società che abitiamo. Ha ancora senso un dialetto nelle lingue delle multimedialità? Assolutamente no. Siamo dentro la precarietà e la mediocrità di un tempo devastato. Tutto è mediocre. La modernità è espressione legittima della mediocrità.
È come se non volessimo prendere coscienza che le società sono totalmente mutate rispetto al 1989 e sono mutate ancora rispetto al 2001 ed è ancora di più sono cambiate rispetto al vocabolario che va dalla pandemia al dilemma russo – ucraino. Non abitiamo nel tempo della lentezza e tanto meno nella temperie di passaggio tra realtà contadina e mondo industriale. È preistoria tutto. Immediatamente il tempo presente diventa non solo tempo passato ma tempo superato. Viviamo una storia senza conoscenza e un sapere senza identità.
Anche il dialetto è preistoria. Consegniamolo definitivamente alla memoria se si vuole restare dentro la contemporaneità. Solo così non perderemo i legami con una tradizione che, comunque, scompare nell’impatto tra l’immediato e il presente. Siamo entrati in un processo inevitabile che nasce dall’identitario viaggio nella storia. Si va verso la costruzione di nuove identità non solo etiche ma linguistiche. D’altronde perché si dovrebbe restare legati a concetti o parole che le nuove generazioni ignorano, e perché non dovremmo consolidarci ad un presente attuale che domina i linguaggi di un sapere nuovo e diverso?
Perché il passato lo si considera non diverso ma un’età più valida del presente? Ma no. Il Sud è la raccolta di diversi Sud. Siamo radicati a retaggi che non fanno più parte del nostro tempo e del nostro essere. Non è vero che l’essere stati è ciò che siamo. È una finzioni ad uso e strumento di una tradizione che vuole avere continuità, e che tale non ha e che tale non è. Il Sud non è più la raccolta di episodi di diversi Sud. È un territorio una lingua, un luogo in cui si intrecciano costumi, comportamenti e usi.
Pensare di avere nostalgie è anacronistico. Le nostalgie sono macerie che diventano cimitero. Viviamo il tempo che ci tocca vivere senza perdere il senso della memoria. La memoria può però fare della memoria un feticcio? Oggi va di modo il termine “resilienza”. Un concetto conformistico. Si vive dentro il barlume che spacca la sabbia. Ormai il concetto non concetto di resilienza lo usano in troppi. Dalle istituzioni ai ragazzi senza esperienza. Il vocabolario della “classe dominante” impone le proprie parole come qualche hanno fa era di moda il “non ci sto” oppure il “resistere”. Regole che bruciano l’istante.
Il fatto è molto più complesso. L’Europa ormai non ha più una sua identità culturale precisa, non ha una sua storia. Tutto è diventato omologante e conformista. L’Italia non ha una politica culturale da decenni ed ha una debole scuola, tranne qualche impennata di singoli docenti o singoli istituti scolastici. Le università sono in caduta libera. Non c’è una vera grande cultura. Mancano gli studiosi liberi, i docenti liberi, i pensatori veri tranne qualche eccezione. Tecnocrazia e burocrazia dominano.
I linguaggi sono ormai quelli delle “App”. Ma possono ancora sussistere i dialetti? Dai, non giochiamo più con questi salti campane, come si diceva una volta. Abitiamo un tempo altro e in questo tempo il dialetto non ha più spazio. Dobbiamo cercare di educarci al linguaggio delle oltre e altre “App”, perché altrimenti diventiamo tutti falsi reperti archeologici. Così sarà anche se non ci pare o se ci pare. Apriamo degli armadi e depositiamoci tutto ciò che non ha più senso compresi i termini che sembravano potessero durare o avere una durata.
Un tempo è cambiato. E non bisogna seguirlo più e tanto meno o tanto più rimpiangerlo. Comprese quelle lingue che consideravamo dialetti di un popolo. I popoli non esistono più. Esistono le civiltà. Ma che brutto e omologante consociativismo il termine “resiliente”. Un kitsch del post linguaggio. Come si fa a non capirlo?
Troppo angloamericamismo ci ha deviati. Le lingue meridionali? Il Sud è soltanto uno spazio di un giustificazionsmo da vecchia Cassa del mezzogiorno. Esistono diversità di luoghi, territori e politiche oltre che di uomini, di idee, di realtà. Taranto è un luogo ma è fatto anche di uomini. Cosenza altrettanto. Sondrio anche. Varese lo stesso. Smettiamola con la miseria e la nobiltà. Siamo diventati senza quella cultura che consideravamo appartenenza, anche se noi siamo figli identitari in destino di eredità e siamo, comunque, diventati delle “App” resilienti. Ovvero il linguaggio senza il “codice” della bellezza potrebbe salvarci. I dialetti? Pensate gente, pensate popoli. Pensiamo noi uomini delle carlinghe… Dobbiamo essere resilienti altrimenti non siamo di moda. Ma fermiamoci davanti ad uno specchio e oltre a specchiarci cerchiamo di ascoltarci. I popoli che non riescono a diventare civiltà saranno resilienti? E chi lo decide? Le classi dominanti? Siamo dominati dal brutto, dalla mancanza di eleganza e dalla supponenza. Insomma. Dalle App alla bruttezza omologante del termine resiliente. Una cultura senza civiltà ordina. Una civiltà senza identità esegue. Dimenticare è il vizio delle sconfitte. Dai dialetti alle App di controllo. Un linguaggio che dilania le culture.
Pierfranco Bruni