Dieci anni fa la lettera di Benedetto XVI ai vescovi

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Sono passati solo dieci anni da quando, in conseguenza delle polemiche montate per la remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre nel 1988, e per talune dichiarazioni rese da Williamson sulle persecuzioni ebraiche del secolo scorso, Benedetto XVI si è sentito “spinto” a chiarire, con una lettera rivolta ai suoi confratelli nel ministero episcopale, l’intera vicenda.

La lettera papale è di tale spessore ed importanza, da dover essere ancora oggi motivo di profonda riflessione non solo per i vescovi, ai quali è indirizzata, ma per tutti noi affinché da essa si tragga il giusto insegnamento su come vivere la Chiesa, ognuno al posto assegnatogli.

È bello riproporla in queste pagine ma per motivi di praticità rimandiamo al sito internet della Città del Vaticano per una lettura integrale del testo:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2009/documents/hf_ben-xvi_let_20090310_remissione-scomunica_it.html.

La lettera di Benedetto XVI è una lezione pratica di amore per la Chiesa impermeata dello zelo che il successore di Pietro nutre per il gregge affidatogli, ed è prova tangibile del dolore provato dal Vescovo di Roma per il tema dell’unità.

L’unità della Chiesa è veramente al centro dell’attenzione del Vescovo di Roma, come pure affermato dallo stesso all’inizio del suo pontificato.

In genere, quando si parla di unità della Chiesa il nostro pensiero va ai grandi scismi ed agli infiniti sforzi di ricucitura che ne sono seguiti. Un po’ come erroneamente accade quando, parlando di solidarietà, andiamo a cercare i bisognosi tra i “geograficamente” lontanissimi non accorgendoci invece delle necessità di chi ci è a fianco. 

“Unità della Chiesa” in occidente è ormai sinonimo di ecumenismo. Si organizzano i necessari incontri, dibattiti, tavole rotonde, per fare viaggi nel tempo, molte volte anche di oltre mille anni, per capirsi, per riconoscersi, per intendersi, perché dopo tanto tempo quelli che erano i pretesti di divisione hanno attratto inesorabilmente ogni altro tipo di ragione: politica, culturale, giurisdizionale, rituale ingigantendo i motivi della divisione fino a renderla irreversibile. Oggi paghiamo lo scotto di quella separazione che non riusciamo più a ricucire.

Qui in Italia, un presbitero ortodosso, qualche anno addietro, così motivava il rifiuto della comunione ad un cattolico che si era avvicinato per riceverla: “dobbiamo soffrire la divisione!” In quel momento non ero d’accordo, ma riflettendo forse una qualche ragione l’aveva anche lui. Forse non capiamo ancora la gravità dello scandalo della divisione che noi operiamo tra i cristiani, tra cattolici, tra ortodossi, tra protestanti, tra gerarchie ecclesiastiche, tra battezzati. Talvolta la banalizziamo e non abbiamo coscienza di cosa essa significhi sino al punto di diventare, inconsciamente o meno, motivo di divisione noi stessi.

Non siamo abbastanza vigilanti in tema di unità. La vediamo come un traguardo che spetta ad altri raggiungere quando invece dovrebbe essere esperienza condivisa sin dalle piccole comunità.

Si sa che autore di ogni divisione è il diavolo, che da essa prende il nome, e si sa pure che Gesù pregò il Padre: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv. 17, 21).

Per l’unità siamo chiamati a pregare continuamente ma anche ad esercitarla nelle famiglie, nel lavoro, nelle parrocchie, nelle scuole, nelle università. 

Leggendo la lettera del Papa ho colto un invito all’unità, alla comunione dei battezzati quali appartenenti al Corpo mistico di Cristo, alla Chiesa. Come si può appartenere al medesimo corpo e poi seminare divisione e diffondere metastasi? Che senso ha pregare per l’unità delle Chiese, organizzare incontri ecumenici, dialoghi interreligiosi, se poi al nostro interno siamo divisi? Con che faccia possiamo avvicinare i fratelli lontani se non amiamo i nostri pastori? Che credibilità potremo avere come componenti della Chiesa, se nel nostro parlare dei Concili, prendiamo ciò che ci fa comodo rinnegando le radici vitali della storia della salvezza?

Da Giovanni XXIII in poi, in più occasioni, l’opinione pubblica condotta per mano dai professionisti dei mezzi d’informazione di massa, ha plaudito il Papa quando rompeva il protocollo mostrando la propria umanità. Francamente non ricordo che altro Pontefice abbia scritto una lettera con tono più amorevole ed accorato di quest’ultima.

Paolo Scagliarini