Due centenari sul filo della filosofia dei Mediterranei: Kafka e Sgalambro in una verità tragica
Si celebrano due centenari tra filosofia e letteratura lungo il meridiano camusiano del Mediterraneo. Kafka cento dalla morte, Manlio Sgalambro dalla nascita. In un mio recente libro mi sono soffermato proprio sulla problematicità filosofico letteraria del novecento europeo e italiano partendo da alcuni presupposti metafisici: “Kafka. La verità tragica” (Solfanelli editore).
Le “trame” filosofiche di Manlio Sgalambro hanno come radici un intreccio di una tale profondità che lega il mondo greco, persiano, egiziano e post greco con la presenza di un Seneca tra il Mediterraneo occidentale e una visione pre cristiana che incontra quell’Occidente che per essere tale ha la necessità di fare i conti e comprarsi la letteratura e la musica araba.
Nei suoi libri si articola la misura del tempo in una contraddizione tra metafisica e speculazione ermeneutica. La sintesi non è assolutamente Hegel. Bensì Nietzsche.
Il Nietzsche non solo di Zarathustra ma del bene e del male.
Quel cercare senza cercare. Ma ricercare nel segno della circolarità in cui il mito è profonda rappresentazione vichiana che si estende oltre il finito nel gioco ineffabile di un invito al viaggio molto caro alla presenza Baudeleriana.
Il viaggio è il bene e il male. Ovvero Dostoevskij. E vive non solo in Sgalambro. Soprattutto in Camus diventa l’artefice fondamentale di una rivolta. Una ribellione. In Kafka è un assurdo in disarmonica finzione delle parti. Kafka e Camus non sono agli antipodi di Sgalambro.
Sono dentro il suo pessimo mondo a cui spesso fa riferimento. È come tra i tre, Kafka, Camus e Sgalambro, ci sia il superamento di “quella malattia mortale” che si veste di un annientamento che tocca lo scoglio del delirio.
È chiaro che alla base c’è il sottosuolo. Attraversiamo tutto il sottosuolo per una necessità di sentirci vivi pur sapendo che si va verso la morte e quindi verso l’oblio.
La morte è oblio? Per chi muore forse sì. Per chi resta è ricordo. Ci perdiamo ritrovando l’accampamento dell’anima.
Delirio?
Assurdo?
Sulla soglia dell’infinito indossiamo il tempo perduto sulla distonia dell’essere per il non essere.
Sgalambro ferisce il tempo lungo la caduta di Camus e Camus scava nel precipitato della manicale porta che si apre non conoscendo cosa accade dopo che la porta si è aperta.
Siamo consolazione. Come filtro di tutto compare Seneca in una vita di cui si ha la consapevolezza della brevità. Moriamo ritrovandoci. Mai perdendoci.
Sgalambro è un micciano tragico. Camus è un vivere in rivolta. Kafka è un abitare se stesso consapevole della condanna.
In tutti e tre il processo ha già sentenziato sapendo però che il castigo è un delitto. E non viceversa.
A volte il castigo è un delitto. Una filosofia della ribellione alla quale l’intreccio tra la colpa non si lega la condanna, ma il vivere stesso. Soprattutto quando letteratura e filosofia si incontrano sul filo del Mediterraneo o dei Mediterranei come in questi casi specifici. Un viaggio tra il cerchio e gli orizzonti.
Pierfranco Bruni