Ecologia e Religione

Ambiente

Il progressivo disincanto del mondo, cioè la sua riduzione a mero strumento utilizzabile per i fini dell’uomo, pare essere giunto ad uno stadio finale: l’ingegneria genetica ormai scompagina i millenari codici genetici; la naturale polarità maschile femminile è messa in discussione da perniciose culture sostenute spesso da un complice potere politico-giudiziario; la gran parte della gente, diseducata dal consumismo sempre più sfrenato, non avverte la drammaticità di un’esistenza vuota di senso e ritiene normale, ad esempio, l’apertura domenicale degli esercizi commerciali. Inquinamento, cambiamento climatico, devastazione degli spazi vitali e scarseggiare delle risorse si accompagnano a un crescente degrado sociale ed esistenziale. Siamo tutti, chi più chi meno, nel contempo artefici e vittime di un modello sociale ed economico “paranoico” (1). Di fronte a questo stato di cose si levano – e non possono che incontrarsi – due proteste: la protesta ecologista contro l’antropocentrismo che distrugge la Terra e la protesta religiosa contro la perdita del sacro e contro la tendenza contronatura del mondo moderno.
Beninteso, le vie che portano all’ecologia sono le più varie, religiose in senso lato e/o filosofiche. Come nota giustamente il filosofo norvegese Arne Naess, fondatore dell’ecologia profonda, “si dovrebbe evitare di individuare una concezione filosofica o religiosa definita tra i sostenitori del movimento dell’ecologia profonda: esiste una ricca varietà di visioni fondamentali compatibili con la piattaforma dell’ecologia profonda.” (2). Ciò detto, va rilevato che “l’ecologia nella sua essenza, e nel suo esito più coerente, si configura come una critica della modernità” (3). Non a caso l’ecologismo muove dalla critica allo sviluppo indiscriminato, quantitativo, indifferente agli equilibri naturali e succube del primato economico su ogni altra dimensione dell’esistenza. D’altro canto, si deve in particolare al cristianesimo “la critica più compiuta dell’orgoglio prometeico che anima l’homo faber. Una critica concepita nel nome dell’umiltà, del senso del limite e del rispetto del creato.” (4). Possiamo a questo punto senz’altro citare quei passi assai significativi della Bibbia dove si dice: “poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.” (Genesi, 2, 8-9); ed ancora: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.” (Genesi 2, 15). Qui viene chiaramente indicato non tanto un luogo o un tempo, quanto un rapporto di armonia tra uomo e natura, di cui la divinità è garante, insieme ai limiti dell’operare umano. Aggiungiamo un testo di grande valore, il messaggio diramato dal patriarca Bartolomeo della Chiesa ortodossa l’1.09.2018 in occasione della giornata della terra nel quale, richiamando la tradizione cristiana ortodossa, si afferma che la minaccia contro l’ambiente “è una conseguenza di una specifica scelta di sviluppo economico, tecnologico e sociale che non rispetta né l’essere umano né la santità della natura. E’ impossibile prendersi cura dell’essere umano mentre nel contempo si distruggono le fondamenta della vita mettendo a rischio il futuro dell’umanità”. E da parte cattolica è la Centesimus annus di Giovanni Paolo II a segnare un’apertura verso le tematiche ecologiche, interpretando il saccheggio della Terra come frutto di arroganza da parte dell’uomo: “L’uomo si sostituisce a Dio e finisce con il provocare la rivolta della natura, più tiranneggiata che governata da lui.” Tematiche riprese e approfondite nella Spe salvi di Benedetto XVI e nella Laudato sii dell’attuale pontefice che auspica una vera e propria conversione ecologica, sia pure col limite, notiamolo en passant, rappresentato da una sottovalutazione del problema dell’esplosione demografica in tanti paesi dell’Africa e dell’Asia.

Sembra dunque che ci sia un saldo legame tra ecologia e religione. A conforto di questa tesi possiamo anche citare l’osservazione dello storico delle religioni Mircea Eliade secondo cui “in tutte le religioni di tipo cosmico la vita religiosa consiste proprio nell’esaltazione della solidarietà dell’uomo con la vita e la natura.” (5). Sennonchè, alcuni autorevoli interpreti, tra cui il pensatore francese Alain de Benoist, a questo proposito, sostengono che se è vero che “la maggior parte delle religioni tradizionali hanno un carattere cosmico: l’universo è da esse inteso come un grande insieme vivente al quale l’uomo è associato.” (6); ciò vale per il buddismo e l’induismo e per le più antiche religioni europee che riconoscono il carattere animato della natura. Tuttavia, “le cose vanno diversamente nel monoteismo biblico… in quanto creato, il mondo non può dunque essere in sé portatore di alcuna sacralità. L’antica prospettiva cosmica pertanto risulta abolita… benché venga considerata buona la natura non ha quindi alcun valore in sé. Nel migliore dei casi non deve essere preservata o protetta perché è bella o portatrice di un’intrinseca sacralità, ma perché è utile all’uomo… o ancora perché essa è in un certo senso, in quanto opera espressamente voluta da Dio, il riflesso dell’intelletto divino.” (7). Questa tesi della responsabilità del cristianesimo nella devastazione della natura ad opera della modernità occidentale, che si ritrova in pensatori sia di destra che di sinistra, trova peraltro un’autorevole sponda nel pensiero tradizionalista di Evola secondo il quale tra le conseguenze del dualismo cristiano (tra naturale e sovrannaturale, tra spirito e materia) ci “fu la sconsacrazione e disanimazione della natura… La natura cessa di essere qualcosa di vivente, viene rigettata… la natura divenne qualcosa di estraneo, se non pure diabolico” (8). A questo proposito si citano spesso i versetti del Genesi (9) che sembrano avallare un atteggiamento di dominio e di possesso sulla natura da parte dell’uomo e non di “amichevole convivenza con le cose” (10), come sarebbe da attendersi, che avrebbe infine favorito la nascita del pensiero scientifico e tecnico dal XVI secolo in poi, col conseguente processo di decadenza e di demonìa dell’economia, di cui oggi soffriamo. Il filosofo e scienziato Rupert Sheldrake, di ispirazione cristiana, peraltro non si nasconde che “la relativamente recente accelerazione dello sviluppo in campo tecnologico affonda le radici nella rivoluzione scientifica del secolo XVII, che a sua volta derivò dal fermento del Rinascimento e della Riforma. Determinanti, in questa fase, furono una grande ambizione di dominare e controllare la natura e di trattare il mondo naturale come se non possedesse valore e vita propri e il rifiuto dei limiti tradizionalmente posti al sapere e al potere umano.” (11). Con la conseguenza che “i tradizionali valori religiosi e simbolici attribuiti a luoghi, piante e animali furono sostituiti da valori monetari.” (12). Di qui la sua proposta, avvalorata dai recenti sviluppi delle scienze, di un nuovo modo di considerare la natura, non più in senso meccanicistico, ma animistico, come natura vivente: “Che cosa cambia se consideriamo la natura viva piuttosto che inanimata? Primo, mettiamo in crisi le ipotesi umanistiche su cui la civiltà moderna è basata. Secondo, instauriamo un rapporto diverso con il mondo naturale e acquistiamo una prospettiva diversa della natura umana. Terzo, diventa possibile una nuova sacralizzazione della natura.” (13). E si dice convinto che “il Dio ritratto nella Bibbia, negli insegnamenti di Gesù, negli scritti dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali e rinascimentali, era un Dio della natura vivente…. Dio non era estraneo alla natura e alla storia umana, ma insito in esse.” (14). D’altronde, lo stesso Benedetto XVI si pone degli interrogativi e scrive che “bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere sé stesso a partire dalle proprie radici… Innanzitutto c’è da chiedersi: che cosa significa “progresso”?… Nel XX secolo, Theodor Adorno ha formulato la problematicità delle fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti, si rende evidente l’ambiguità del progresso.

Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche
possibilità abissali di male – che prima non esistevano.” (15). Dirimenti
sull’argomento ci paiono le osservazioni di Marcello Veneziani che facciamo volentieri nostre: “non è del tutto convincente il nesso che è frequentemente richiamato tra l’insensibilità verso la natura e la tradizione cristiana dell’Occidente: secondo questa intepretazione… il cristianesimo avrebbe prodotto quella svalutazione della natura, quell’avvilimento del mondo a vantaggio del sopramondo, che sarebbe stato l’alveo d’elezione di quella cultura moderna, industrialista e tecnicista, che ha degradato l’ambiente. E’ vero… che in linee generali ogni religione fondata sulla trascendenza di Dio dal mondo relativizza e in certo modo <<desacralizza>> i beni di questo mondo, e dunque anche i beni ambientali e il mondo naturale…. Tuttavia nelle pagine del cristianesimo, nei vangeli e nella storia della cristianità, non sarebbe difficile contrapporre a ogni atteggiamento svalutativo nei confronti della natura atteggiamenti di amorosa considerazione per il creato.” (16). Ed aggiunge che “il dualismo irreparabile e tragico tra vita spirituale e vita naturale appartiene alla gnosi più che al cristianesimo. O, se vogliamo, appartiene più alle eresie del cristianesimo, e poi, in parte, al protestantesimo e al puritanesimo, che al cattolicesimo.” (17). E si domanda se, accanto a certe interpretazioni del cristianesimo (tra le quali ci metteremmo anche la scolastica) quale “genesi religiosa del degrado della natura” non si potrebbe aggiungere “la tradizione del razionalismo socratico, quello che per intenderci privilegia il colloquio della città all’insignificante silenzio della natura, secondo il dialogo socratico del Fedro” (18)

Sandro Marano

(1) Massimo Fini, Il ribelle dalla a alla z, Marsilio, 2014, p. 151-153;
(2) Arne Naess, Introduzione all’ecologia profonda, edizioni ETS, p. 40;
(3) Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco, 1990, p.104;
(4) Marcello Veneziani, op. cit., p. 115;
(5) Citato da Alain de Benoist in Le sfide della modernità, Arianna editrice, 2003, p.
248;
(6) Alain de Benoist, op. cit., p. 247;
(7) Alatin de Benoist, op. cit., p. 248;
(8) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, edizioni Mediterranee, 2010, p. 327;
(9) Confronta Genesi, 1,26; 1,28; 9, 1-7;
(10) Alain de Benoist, op. cit., p. 222;

(11) Rupert Sheldrake, La rinascita della natura, Corbaccio editore, 1993, p. 42;
(12) Rupert Sheldrake, op. cit., p. 27;
(13) Rupert Sheldrake, op. cit., p. 197;
(14) Rupert Sheldrake, op. cit., p. 178;
(15) Benedetto XVI, Spe salvi, libreria editrice vaticana, 2007, p. 45;
(16) Marcello Veneziani, op. cit. p. 114;
(17) Marcello Veneziani, op. cit., p. 115;
(18) Ibidem.