Giannino ’o greco
La Messa è giunta al “Sanctus”: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.
Quasi introdotto da queste parole, bussa alla porta di casa ed entra un ospite nuovo: testa completamente priva di capelli, viso oltremodo pallido, grossi occhiali da sole che ne occultano le sembianze. Gli chiedo:
– Chi è lei, signore? Chi abbiano l’onore di accogliere?
Una voce tenue mi risponde, come se giungesse da lontano:
- Ma come, non mi conosci? Sono Yannis Diamantopoulos…
Avverto un fremito di confusione e di sorpresa. Com’è diverso, Yannis! Il suo volto, paffuto e sorridente, incorniciato da capelli e folti baffi neri, è ora così emaciato, assolutamente calvo e deformato dalla chemio. A passo lento e stanco, retto da una giovane (la nipote) prende posto tra i presenti, si fa il segno della croce e si dispone a seguire la Messa. Alla fine rivolgo un saluto a lui e a tutti, accompagnato da un pensiero augurale.
È la festa del nostro santo fondatore, san Domenico di Guzman. Da oltre venticinque anni, nota agli amici come la festa dei “tre otto”: cioè del giorno otto dell’ottavo mese (Agosto), alle otto di sera. Ripetere i tre otto aiuta la memoria di tutti, cattolici e ortodossi, a onorare quel giorno, riempiendo la nostra casa di Atene, senza aspettare invito. In una città desolata dal caldo e dalle vacanze, è incredibile vedere quanta gente si presenta questo giorno da noi. Demetrio lascia la villeggiatura presso capo Sounio; Angelo con la signora e la figlia Antonella vengono espressamente dalla casa estiva di Kavuri, con un cesto di fichi freschi raccolti dal loro giardino. Poi c’è il vescovo dell’esarcato greco-cattolico, accompagnato da alcuni sacerdoti e diaconi; le Piccole Sorelle di Gesù, gli amici ortodossi del gruppo teologico di Santa Teresa a Kypseli, con l’impeccabile professore Arbanitis; i cappuccini della Comunità di san Francesco di Liossia, la signora Mavromichalis, in compagnia della zia, vestite entrambe a festa, come gli amici numerosi del vicinato. E tutti portano qualcosa: fiori, vino, dolci e insalate adatte a questo periodo di digiuno prima della Dormizione della Vergine. L’icona di San Domenico domina in sala comune, tra fiori e ceri, venerata da tutti.
La serata si articola in due parti: prima un lungo momento celebrativo, con letture bibliche, preghiere e canti, che si conclude con la benedizione del vescovo Anargyros e il bacio di tutti all’icona del Santo; poi la serata si apre a serena convivialità: si formano piccoli gruppi attorno ai tavoli sistemati sul terrazzo di casa. Le donne recano dalla cucina pane, vari vassoi e brocche di vino o bibite, ed ognuno attinge a piacere da quel buffet familiare. La gente si sente a suo agio, come a casa sua. Si conversa un po’ di tutto, in modo particolare sul messaggio e la figura di san Domenico e sulla sua famiglia religiosa. Stasera Yannis siede accanto a due focolarine che conosce bene; ma rimane insolitamente laconico e assorto. Lo avvicino più di una volta, stringendogli forte la mano e sorridendogli. Avverto in lui la consapevolezza di non essere lontano dalla fine.
Una folla di ricordi si agita e fa ressa nel mio animo. Quanto tempo è passato dal giorno in cui ci siamo conosciuti ad Atene! Yannis era allora un giovane appena trentenne, scattante, allegro e di grande simpatia; ma anche di carattere forte e volitivo, vero arcade e stirpe del Peloponneso. Ci incontrammo come colleghi presso una scuola serale di Italiano. Appena gli dissi che ero di Napoli, non gli parve vero di mettersi a parlare in dialetto. Il vernacolo partenopeo con intonazione greca, sulle sue labbra appariva cosa alquanto buffa, ma simpatica: “Uè, guagliò, comme staie? Staie buono? Jammoce a piglià ’o ccafé!”
In realtà, gli studi universitari li aveva fatti a Napoli. Era il periodo in cui in Grecia imperava la dittatura del colonnelli, e tutti quelli che non erano docili al regime, se vivevano o studiavano all’estero – mi spiegava lo stesso Yannis – soffrivano come esiliati. Le loro attività e persino i discorsi che tenevano all’università e in luoghi pubblici erano controllati e riferiti alla polizia dei dittatori.
– Fu allora che vissi anche una grande crisi religiosa – mi raccontava con tristezza – quando mi resi conto che alcuni di questi agenti si trovavano addirittura tra gli uomini della Chiesa ortodossa, “pastoralmente” presente nella Diaspora, cioè tra greci all’estero. Battezzato ed educato nella chiesa ortodossa dai miei genitori, amavo la chiesa come una madre. Ed ecco che ora essa diventava connivente con i dittatori, accusava e tradiva i suoi figli. Che fare, abbandonarla? Diventare miscredente? Fu allora che gli amici di Napoli mi aiutarono a superare questa insidia…
Diamantopoulos abitava in pensione nel rione Pignasecca, presso l’ospedale dei Pellegrini. Godeva di grande solidarietà da parte della gente del rione, che lo prese a benvolere. Da loro apprese non solo le espressioni dialettali (anche le più audaci), ma altresì un vero amore per lo straniero. “Giannino ’o greco, Giannino nuosto”, così lo chiamava affettuosamente la gente. La domenica non sapeva come dividersi tra gli inviti a pranzo. Se gli aiuti economici dei genitori tardavano ad arrivare, non appena gli amici della Pignasecca venivano a saperlo, si presentavano a casa e lo pregavano di accettare una cifra di danaro: “Non avere fretta a restituire, nun ce sta pressa”.
– Ecco, Rosario: la fede e l’amore di questa gente semplice appartenente al mondo cattolico mi fece capire che questa è la forza delle nostre chiese, di quella ortodossa, e di quella vostra. Capii che come la chiesa cattolica di Napoli era fatta di questa gente buona e caritatevole, e non solo del papa e dei vescovi, così la chiesa ortodossa di Grecia non era solo il Santo Sinodo, ma anche il cosiddetto “kosmaki”, mondo semplice fatto di persone come mia madre che mi ha insegnato a fare la croce, ad accendere le candeline davanti all’icona di Cristo, della Madonna e dei Santi, e che quando ero ancora piccolo, mi sollevava tra le braccia per farmi dare il bacio alle sante icone poste in alto. La gente che accende il lumino in casa davanti all’angolo dei suoi santi, che si sacrifica per andare a cantare in chiesa l’Akathistos e durante la quaresima si prepara alla Pasqua, non solo digiunando, ma facendo di nascosto tante opere buone…
Per questo motivo Yannis avvertiva una vera sofferenza per il persistere della divisione delle chiese:
– Re lo giuro, credimi, per tanti anni sono stato in Italia, ho conosciuto tanti sacerdoti cattolici e tuttora resto in amicizia con loro. Ebbene, nessuno mai mi ha preso da parte e mi ha detto: perché non diventi cattolico? Nessuno. Un giorno che ero sfiduciato chiesi ad un giovane prete del quartiere: “Ma qual’ è la vera chiesa?”, lui fresco di studi mi disse che la chiesa è una sola, quella fondata da Cristo sulla roccia della nostra fede, e la mia e la sua non erano che Chiese sorelle. “Potrei mai dirti: lascia tua madre, e cercatene un’altra?”. Sono passati più di venti anni, e quelle parole sono ancora vive nel mio cuore. E mi fa male il fatto che queste chiese pure essendo sorelle, restino ancora lontane e divise tra loro.
Uno degli argomenti cari a Yannis era il suo amore per Antonietta, sua moglie. La incontrò all’università di Napoli, e strinse con lei una bella amicizia, che ben presto ispirò loro la decisione di fidanzarsi.
– Stavamo così bene insieme. Lei ispirava in me tanta fiducia, io in lei tanta sicurezza. Lei cattolica della Basilicata, io ortodosso del Peloponneso. Due regioni e due popolazioni che si rassomigliano molto. Passavamo tanto tempo insieme e fare progetti, a discutere di cultura, di politica, di vita universitaria. Mai un contrasto sul nostro appartenere a due chiese diverse e divise. Ci sposammo prima col rito ortodosso e poi con replica cattolica. Lei accettò di buon grado di mettere sul capo la corona collegata alla mia tramite un nastro bianco. Io mi inginocchiai con lei quando il prete cattolico benedisse le nostre fedi e chiese di scambiarcele. “E l’uomo non separi quello che Dio ha unito”, disse solennemente. Così è stato, e così sarà fino alla morte.
Antonietta e Yannis attesero con molto amore la prima bambina, Alexandra, e poi il secondo, Ilias. Lei non discusse minimamente se i figli fossero battezzati ortodossi come il padre. E Yannis accompagnava sua moglie a Messa, ritenendosi onorato di starle vicino per tutto il tempo della celebrazione. Quando si sono costruiti una bella casa nell’Attica orientale, fu lui a chiedermi se potessi celebrare un’ Eucarestia domestica nella nuova dimora. Era raggiante. Invitò amici cattolici e ortodossi alla celebrazione. Con Antonietta e figli prepararono la mensa eucaristica: fiori, ceri, incenso, acqua e vino. Lesse lui la prima lettura con occhi umidi di commozione. La pericope era presa da Efesini 4:
«Un solo corpo, e un solo spirito,
come una sola è la speranza
alla quale siete stati chiamati,
quella della vostra vocazione;
un solo Signore, una sola fede,
un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti,
che è al di sopra di tutti,
opera per mezzo di tutti
ed è presente in tutti» (vv. 4-6).
Yannis amava molto quelle parole, e sottolineava che tutte erano vere espressioni del loro matrimonio, a cominciare da “un solo corpo”, che riferiva alla loro feconda unione coniugale. “Le chiese, a livello ufficiale, forse avranno ancora molto cammino da fare – commentava – per arrivare all’unione. Per noi essa è già fatta. È realtà.
Un giorno mi regalò un libretto, con una dedica: A Rosario mio fratello, con affetto. Yannis”. Era una raccolta di poesia greche scritte da lui. Una di esse, intitolata Ghiortazo (= Festeggio) mi colpì in particolare:
«Che altro posso fare?
Evento fulmineo
infinitamente breve
è la vita.
Perciò festeggio la mia follia.
Festeggio la mia solitudine.
Festeggio la mia incapacità.
Festeggio la mia infermità
Festeggio quello che sono:
un essere umano».
La serata in onore di san Domenico volge al termine. Manca poco per la mezzanotte e gli amici uno alla volta ci salutano, rinnovano gli auguri, ringraziano della serata e partono. Si alza anche Yannis. Delicatamente mi consegna un’ offerta per le nostra attività editoriali in Grecia. Ci abbracciamo come due fratelli. Celando la mia commozione e i vari pensieri che mi vengono alla mente, mi limito a dirgli:
- Quando ci rivedremo, Yanni? Verrai a Megara a stare un po’ con noi?
Egli si toglie gli occhiali, mostrandomi un viso realmente martoriato dalla malattia e dalla severa terapia. Cerca di sorridere, e abbozza una risposta:
- Non so, padre. Dipende da tante cose. Ma quando e dove avverrà, sono certo che sarà il Signore a farci incontrare.
Fr. Rosario Scognamiglio
23 Maggio, Clinica “A . Grimaldi”, san Giorgio a Cremano (NA)
Tratto da Forte più del cemento, edizioni La Matrice