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La Perfezione che prende forma, l’Invisibile che si rende visibile, l’Eterno che entra nella storia, l’Onnipotente che si limita e contraendosi diventa creatura, vero uomo, sono alcuni degli aspetti che impediscono alla nostra fede ogni deriva sincretista.

Tutte queste affermazioni per le altre fedi sono pari a bestemmie. Ciò che generalmente scandalizza, è il fatto che Dio si possa “piegare” all’uomo diventando tale. Questo istintivo rifiuto da parte umana, tuttavia, contraddice l’idea stessa che comunemente tutti gli uomini hanno di Dio, poiché finisce per limitare una delle caratteristiche generalmente riconosciuta alla divinità: l’onnipotenza, che, secondo questa visione, “non potrebbe” più disporre del suo essere a suo piacimento, quindi anche scegliendo di limitarsi.

Ancor’oggi, la “logica” di Dio, nonostante la rivelazione esperienziale e teologica, è il più delle volte difficilmente accessibile quando non condivisa e quindi respinta. Tanto non deve turbare in quanto è stato detto: “…i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8-13), edè proprio per questo chealcune Sue scelte suscitano ancora oggi scandalo, esattamente come otre duemila anni fa quando il Theantropo, l’Uomo-Dio, camminava per le strade della Palestina ma i suoi non lo accolsero (cfr. Gv 1, 1-18). Un mancato accoglimento da parte umana, ritengo, soprattutto per il metodo scelto: spogliato com’era di ogni ricchezza, di ogni potere, umanamente percepibile. Non era quella l’idea (l’idolo) di Dio che il mondo si era fatto di Dio, ecco quindi il rifiuto dell’uomo.

È inconcepibile ed inaccettabile, ieri come oggi, che Dio abbia prediletto la frequentazione delle case delle prostitute e dei pubblicani, esattori delle tasse che approfittando dell’incarico ricevuto facevano la “cresta” intascando differenze ingenti di denaro, anziché le case dei notabili e dei professori di teologia dell’epoca che pensavano di padroneggiare la Verità, pensavano di poter contenere Dio in schemi predeterminati, in complicate ed inaccessibili teorie.

È difficile accettare che Dio possa rompere questi schemi ed uscire dalla gabbia nella quale lo abbiamo relegato concedendogli sì l’onnipotenza, ma “condizionata”. Tutto quanto fin qui affermato è però generalmente condiviso da noi cristiani. In teoria. Con altrettanta facilità verbale affermiamo: Dio è amore, Dio è misericordia, e tutto ciò in misura infinita. Poi però cominciamo a contingentare questo amore e questa misericordia legandola ad un legalismo che nulla ha da invidiare a quello ebraico dell’Antico Testamento. È così ad oltre duemila anni dalla Sua incarnazione risulta difficile, anche per noi ai quali è apparso, credere che Dio possa prediligere i reietti della società, i lontani, i deboli, i poveri, i peccatori per i quali è venuto (Mc 2,13-17). Mentre accettiamo ben volentieri che si accompagni ai “santi”.

La sua azione eterna e diuturna mina le nostre effimere certezze e ci destabilizza costantemente, sollecitandoci ad una contemplazione e ad una azione continue. Nonostante abbia affermato di essere il buon pastore che dà la sua vita per le pecore, nonostante sia nel suo fare il lasciare al sicuro le altre novantanove per andare alla ricerca di quella perduta, nonostante abbia detto “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc. 15 3-7), stentiamo a riconoscerci tra quei bisognevoli. Eppure lui attende la nostra semplice richiesta: Signore, aiuto sono qui! Non siamo noi ad andare da Lui ma è Lui che viene, è Lui che vuole trovarci e per questo si attiva: “Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (Mt. 18, 12-14).

È difficile accettare un Dio che si cinge con un grembiule per lavare i piedi di un peccatore specie se quel peccatore non è un altro ma sono io. Come Pietro (Gv. 13,8), il più delle volte non permettiamo che Dio si abbassi sui nostri piedi per lavarceli, sulla nostra miseria per mondarla, e questo perché riteniamo di non aver bisogno che si incomodi per noi. Erroneamente ci sentiamo più sereni e meno coinvolti nel vederlo posto su un altare anziché all’opera ai nostri “piedi” per la nostra resurrezione, per la ricostituzione della nostra somiglianza a Lui nostro creatore (Gn 1,26). Orgogliosi e fieri delle nostre capacità e dei traguardi raggiunti, ci rifugiamo comodamente nel compimento delle nostre buone azioni, così come prescritto per ogni buon cristiano, contando sulla loro efficacia e dimenticando l’ammonimento: “senza di me non potete far nulla” (Gv. 15,5). Abituati come siamo nel confidare in ciò che facciamo, anziché considerare ciò che siamo, non siamo poi tanto lontani dal popolo di Israele che era entrato in contatto con il Dio dell’alleanza, del patto, del contratto.

È certamente più rassicurante, più alla nostra portata, un Dio che vuole che si faccia qualcosa e che proibisca di fare qualcos’altro, anziché un Dio del più impegnativo “metanoeite”: del cambiate mentalità, del convertitevi; un Dio che ha un progetto dell’uomo per l’uomo, quello del farsi come noi per farci come Lui: « Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio » (Sant’Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192); un Dio dell’escatologia la cui libera azione rende difficoltoso da parte nostra l’accettare che possa amare i peccatori fino al punto di perdonare l’adultera ed ammonire chi, al contrario, si sentiva nel giusto con il celebre “chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv. 8,7).  

Ma tant’è. Il pubblicano, in fondo al tempio, non osava alzare gli occhi al cielo… e fu giustificato al contrario di colui che invece era certo di essere nel giusto per aver adempiuto ai precetti (Lc. 18, 9-14) E che dire dell’unico per il quale Gesù ha attestato la sua presenza in Paradiso? Che cosa ha fatto quel ladro se non essersi riconosciuto per quello che era (Lc. 23,43)?

Ancora più esplicito in questo senso è stato Gesù quando gli si accostò un “tale” e gli chiese: “Cosa devo fare per “ricevere in eredità” la vita eterna…?”. Da notare la logica utilitaristica che stride con la gratuità divina: faccio qualcosa per ottenere un’altra. La risposta di Gesù è quella che in realtà il “tale” si aspettava: “osserva i comandamenti”. Probabilmente, anzi sicuramente, quel “tale” sapeva già la risposta alla domanda, tant’è che replica affermando che sin dall’infanzia aveva sempre osservato il decalogo. Il tale andava sul sicuro. Nel solo vangelo di Marco (che di solito ha un contenuto più breve rispetto agli altri sinottici) è riferito che “Gesù fissando su di lui lo sguardo lo amò…” (Mc. 10, 21). Ma tornando al tema, o il “tale” aveva sperimentato che l’osservanza superficiale della Legge era insufficiente ad ottenere quanto promesso o magari si aspettava da Gesù un’ulteriore richiesta di “fare” qualcos’altro fuori dal comune oltre a quanto richiesto nelle tavole della legge, qualcosa di eclatante, di strabiliante che lui solo, insieme ad altri pochi avrebbe potuto fare. La risposta di Cristo non tarda ad arrivare: “Una cosa ti manca: va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo, e vieni, seguimi”.

Questa risposta riecheggia il «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc. 9, 23, Mt. 16,24, Mc 8,34) ed il “Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3-12). In quell’invito a vendere tutti i beni c’è in pieno l’invito a rinnegare se stessi, abbandonando ogni falsa certezza ed ogni falsa immagine che ci siamo fatti di noi stessi, e confessando il nostro stato di fronte Lui, alla Verità (Giovanni 14, 6). Di solito questo episodio viene letto fin qui, con l’immagine del “tale” che si allontana da Gesù sconsolato poiché aveva molti beni dai quali, evidentemente, non si voleva distaccare. A questo punto Gesù, “guardando attorno ai suoi discepoli” (Mc. 10,23), evidentemente notando lo smarrimento e la preoccupazione in tutti loro, anziché rincuorarli getta benzina sul fuoco accentuando la drammaticità del problema che ha a che fare con la sua missione: “Quanto difficilmente quelli che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”, e ancora calcando la mano: “Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per il foro dell’ago che un ricco entri nel regno di Dio”. I discepoli dopo tante sollecitazioni al culmine della tensione creatasi per l’importanza del tema trattato, non ce la fanno più e sbottano al Maestro: “E chi può salvarsi?” Le conclusioni Gesù le rivela proprio a questo punto manifestando l’immensa misericordia di Dio: “Per gli uomini è impossibile, ma non per Dio, perché tutto è possibile per Dio” (Mc 10,27). La salvezza dell’uomo è Dio stesso, altrimenti non sarebbe venuto in mezzo a noi. Se fosse stata sufficiente l’osservanza del decalogo (del fare o non fare) tanto era già stato detto a Mosé. A cosa sarebbe servita l’incarnazione ed il sacrificio della croce? Ma la questione non è del fare, bensì del diventare.

Del resto le invocazioni che hanno ottenuto più di tutte le altre, e che costellano il messaggio evangelico, non sono forse “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18,38); “O Dio, abbi pietà di me!” (Lc 18,13); “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”! (Lc 23,42)? Dio dunque ha deciso di andare incontro all’uomo in maniera radicale e progressiva. Per farsi conoscere dalla sua creatura si è fatto creatura e non solo: dopo essersi fatto uomo si è consegnato all’uomo, ed all’uomo peccatore. In questo suo progetto l’Inafferrabile per eccellenza si è lasciato afferrare e per amore si è lasciato crocifiggere. Un cammino escatologico che passa per il legno della croce dove Dio, in modo cruento, ha incontrato l’uomo quasi a voler suggellare un contatto profondo con lui.

L’emorroissa (che all’epoca dei fatti era considerata donna impura che aveva l’obbligo di avvertire non solo il marito ma tutti gli uomini della famiglia perché non la toccassero e non sfiorassero neppure le cose da lei toccate, Lv 15, 19-30) ha incontrato Dio per strada e ha cercato e trovato il contatto del suo mantello per essere guarita (l’impura ha toccato il Puro ed è guarita); Gesù, il Figlio di Dio, non ha sottratto le sue mani quando i crocifissori violentemente gliele hanno afferrate ed anzi ha chiesto il loro perdono giustificandoli per la loro ignoranza: “non sanno quello che fanno” (Lc. 23,34). L’emorroissa per fede tocca Gesù e viene sanata ma quei crocifissori che pure afferrano le braccia del loro Salvatore, che fede avevano per meritare la preghiera di salvezza elevata dal Figlio al Padre? E la preghiera di Gesù sanguinante al Padre “perdona loro” (Lc. 23-34), sarà forse caduta nel vuoto? San Giovanni Crisostomo in una celebre omelia ha affermato: Dio “Accetta le opere e loda l’intenzione; apprezza l’azione e loda il buon proposito” abbinando magistralmente il fare all’essere senza il quale sarebbe il primo sarebbe frutto di ipocrisia.

Una cosa è certa: così come la vita ci è stata donata senza che lo abbiamo chiesto, così tutto ciò che proviene da Dio è totalmente gratuito. In questa gratuità d’amore deve essere letta tutta la storia della salvezza che ha come epilogo prorompente la resurrezione di Cristo. Illuminante è a tal proposito l’omelia tenuta da San Giovanni Crisostomo in occasione della Pasqua: “Nessuno pianga per i suoi peccati: il perdono si è levato dal sepolcro. Nessuno tema la morte: ci ha infatti liberati la morte del Salvatore; l’ha distrutta mentre era stretta da essa. Ha punito l’inferno Colui che è disceso negli inferi”.

Paolo Scagliarini