I valori della grande tragedia

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Il V secolo a.C. vede fiorire in Grecia il fenomeno della grande tragedia, di cui i nomi più prestigiosi, che sono giunti fino a noi, sono quelli di Eschilo, Sofocle ed Euripide. La nascita della tragedia va di pari passo con l’affermarsi della Polis, specie in Atene. Tale termine non può tradursi semplicemente con ” città “, ma presume piuttosto un insieme culturale e religioso, in particolare, di soggetti che si identificano nei valori della Tradizione, che nella Grecia classica sono quelli racchiusi nei Miti.

La Polis ateniese ha tutto l’interesse a che si sviluppi il teatro tragico, perché nelle varie rappresentazioni di esso i tragediografi, specialmente Eschilo e Sofocle, trasmettono gli elementi fondamentali della Religione e attraverso di essi educano i cittadini ai valori della Tradizione e che sono gli stessi della Polis, per cui può dirsi che il teatro tragico è un teatro politico, nel senso migliore di questo termine. Difatti è la stessa Polis che finanzia ed organizza gli spettacoli teatrali, istituendo dei concorsi nei quali i vari scrittori di tragedie presentano le loro opere, in forma di trilogie, ad una commissione statale presenziata dall’arconte eponimo.

Alle opere scelte dalla commissione, veniva attribuito un coro, il quale nelle varie tragedie rappresentava la voce della coscienza popolare, e la loro messa in opera avveniva nel periodo invernale, durante il quale le attività economiche, sia di terra che di mare, erano alquanto scarse. La partecipazione agli spettacoli era gratuita e durava per più giorni, ad essi erano ammessi solo gli uomini liberi in un primo tempo, in seguito anche le donne. L’importanza della partecipazione corale agli spettacoli, assumeva il significato di un Rito collettivo, durante il quale, secondo quanto riferisce Aristotele, si realizzavano i due momenti fondamentali della mimesis e della katarsis, cioè gli spettatori partecipando agli avvenimenti drammatici dei protagonisti, e rapportandoli anche alle proprie eventuali situazioni esistenziali, ottenevano la purificazione dell’animo.

Secondo la teoria di Federico Nietzsche, la trama fondamentale della tragedia poneva in risalto l’ambigua opposizione tra Apollo e Dioniso. Il primo rappresentava il dio solare della forma composta, dell’equilibrio razionale, che a livello dell’arte umana si realizzava nella scultura. Mentre Dioniso rappresentava il dio dell’ebbrezza e dello scatenamento degli istinti e che quindi era più legato alla musica. Ma i due, in realtà, sono i due aspetti che si possono ritrovare in ogni uomo, l’aspetto diurno e quello notturno.

Secondo la teoria dello studioso Mario Untersteiner, nella tragedia si può rinvenire lo scontro tra la religiosità olimpica e quella mediterranea; la prima portata in Grecia dagli invasori Elleni, di stirpe indo- europea, che incentravano il loro culto su divinità di tipo maschile, quali Zeus e Apollo Iperboreo, mentre nella religiosità mediterranea, appartenente ai popoli autoctoni della Grecia pre-ariana, di solito individuati nella cultura geo- cretese, la divinità principale era quella della Grande Dea Madre, molto spesso assimilata alla Madre Terra. Molti elementi simbolici farebbero propendere per questa ultima tesi; ad esempio nell’Orestea di Eschilo, Agamennone viene ucciso dalla moglie Clitemnestra in una vasca da bagno, simbolo di purificazione lustrale, con una un’ascia bipenne, simbolo evidente di Creta.

Eschilo, il più religioso dei tre, nelle sue opere pone in evidenza il tema fondamentale della hybris, cioè del miasma, la colpa, di cui si è caricato il protagonista della tragedia, il quale ha rotto con la sua arroganza, l’ordine cosmico stabilito da Zeus. Tale atteggiamento, in conflitto con la volontà degli dei, fa scattare la necessaria punizione sia sul soggetto che ha posto in essere il comportamento contrario alla volontà degli dei, che sul ” genos”, cioè sui suoi discendenti. Un altro elemento che Eschilo pone in evidenza è quello del “pathei matos”, cioè: dalla sofferenza deriva la Sapienza, ma anche: “benedette sono quelle case annerite dal fumo”, volendo con ciò dire che è preferibile una vita modesta ad una ricchezza dalle origini oscure.

Sofocle, pur sostenendo la dottrina di Eschilo, secondo cui non è l’uomo misura di tutte le cose, come in quel tempo veniva affermato dai Sofisti, in particolare da Protagora di Abdera, ma sono gli dei che stabiliscono l’andamento delle cose umane, pone in risalto il legame dell’uomo al suo destino. Tale concetto, presente in varie opere, trova il suo culmine in Edipo Re, in cui il protagonista Edipo cerca di sfuggire al suo destino, fuggendo da Corinto, in cui era stato adottato dal re Polibo e da sua moglie, perché una profezia gli aveva rivelato che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Ma nella fuga si imbatte con la sua auriga con quella del Re Laio, il suo vero padre, in una strada stretta, in cui sorge una lite tra di essi che sfocia con l’uccisione di Laio. In seguito Edipo svolge vittoriosamente l’enigma della Sfinge, per cui viene accolto trionfalmente in Tebe, viene acclamato Re e sposa Giocasta, senza sapere che fosse la sua vera madre.

L’insegnamento di Sofocle consiste nell’affermare che l’uomo, anche se è capace di imprese grandi, come la vittoria di Edipo sulla Sfinge, non può sfuggire al suo destino stabilito dagli dei.

Euripide, infine, stravolge completamente lo schema ideologico- religioso dei suoi predecessori, poiché non dà valore ai Miti, che erano stati l’elemento portante delle tragedie sia di Eschilo, che di Sofocle, e ciò che va a rappresentare nelle sue opere, pur permanendo solo nella forma i riferimenti ai personaggi mitologici, sono solo dei drammi che si verificano nella vita ordinaria. Con Euripide, si può dire, c’è la morte della tragedia e inizia il teatro moderno.

Tale veloce cambiamento di mentalità, nel giro di neanche un secolo, da Eschilo ad Euripide, è un segno evidente della velocità sempre più crescente fino ai nostri giorni, del modo di sentire la vita in termini di crescente materialismo, elemento tipico dell’età oscura in cui stiamo vivendo.

Antonio Bosna