Il canto gregoriano, con p. Gregorio Santolla

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Percorrendo la strada verso Gioia del Colle, a circa 5 chilometri da Noci, nella Valle d’Itria, possiamo ammirare tra prati verdi, trulli, liberi pascoli, muretti a secco, isolata su un’altura, l’Abbazia benedettina Madonna della Scala, unico monastero benedettino maschile rimasto in provincia di Bari. Meta di spiritualità e pellegrinaggio è noto anche per il canto gregoriano, che deve il suo nome a papa Gregorio I Magno. 

“La Fiaccola” ha voluto approfondire l’argomento ponendo alcune domande a padre Gregorio Santolla che dirige il coro dell’Abbazia.

Entrato in Monastero il 15 Settembre del 1956, dopo aver fatto gli studi programmati, p. Gregorio ha iniziato il noviziato nel 1961.

Nel 1963 si stabilisce a Padova nel Monastero di S. Giustina dove inizia il primo anno di studi liceali. Nel 1964 a Parma nel Monastero di S. Giovanni evangelista termina gli studi liceali.

Nel 1966 a Roma nell’istituto teologico di S. Anselmo frequenta il corso di filosofia.

Successivamente studia  teologia nel Monastero della Madonna della Scala, dove venne istituito il seminario delle vocazioni adulte delle varie diocesi pugliesi. Nello stesso periodo segue

p. Anselmo per ciò che concerne il canto e la trascrizione di alcuni codici trovati in alcune diocesi del meridione ed elabora ex novo una composizione di una poetessa della Basilicata, testo denominato: “Ad Crucem”. Essa a sua volta lo prega di poter comporre due  testi del professor Pekkanen dell’ università di Hensilki in Filandia: “Requiem Latinum” e “Passio Iesu Christi Poetica secundum Matthaeum”.

Il canto gregoriano riconosciuto come canto cristiano in lingua latina della liturgia romana dalla chiesa cattolica d’Occidente sin dall’VIII secolo, nasce come genere musicale vocale, monodico dall’incontro del canto romano antico col canto gallicano nel contesto della rinascita carolingia. 

La sublimità del canto gregoriano insieme alla bellezza della chiesa, allo splendore degli altari, ai testi liturgici, porta i fedeli all’incontro con Cristo nel mistero della salvezza. Oggi purtroppo questo non avviene quasi più con la modernità che ha fatto il suo ingresso nella liturgia e nella musica che l’accompagna?

Si, questo non avviene più per motivi storici e teologici o forse dovremmo dire trascendentali, riguardanti  il cammino umano e l’immagine che ci siamo fatti di Dio.   A questo si aggiunge la complessità delle varie religioni che influisce sul mistero trascendente di Dio. Con l’avvento delle nuove tecnologie il mondo secondo l’espressione del papa Giovanni XXIII si è trasformato in un villaggio. Una espressione sicuramente bella e poetica, ma purtroppo non esaustiva. Sono realtà che non possiamo ignorare.

Nel Concilio Vaticano II papa Paolo VI citò la sentenza agostiniana “meglio esser rimproverati dai professori che non capiti dal popolo”, e segnò la fine del latino come lingua militante della Chiesa. Si può parlare di luteranizzazione della liturgia con le inevitabili conseguenze?

Il papa servendosi delle parole di S. Agostino voleva favorire un accesso più diretto ai misteri della liturgia a beneficio del popolo di Dio, senza minimamente pensare alle conseguenze sulla  cristianità. Lui non immaginava minimamente all’uso distorto che si sarebbe fatto delle parole di S. Agostino e  sicuramente Paolo VI non voleva una luteranizzazione della liturgia cattolica. Aveva in mente solo di arricchire spiritualmente il  popolo a lui affidato! Il processo di luteranizzazione è divenuto una realtà, purtroppo, negli anni successivi al suo pontificato.

Pensa che la Chiesa debba ritornare all’uso del latino ed abbandonare la musica profana che non si addice ad una dignitosa celebrazione in onore del Signore e che di fatto concorre alla perdita del senso del “sacro”, trasformando la S. Messa in uno spettacolo festoso con tutti gli abusi liturgici e non?

Ricordo benissimo, negli anni “50  alle  7 del mattino, la sensibilità con cui una assidua frequentatrice del nostro monastero partecipava alla S. Messa con il suo devoto messalino dell’allora Abate Caronti, una partecipazione soffusa di tanto ardore e venerazione. Il latino non gli procurava difficoltà, aveva a portata di mano la traduzione dell’abate Caronti, ma ciò che più colpiva era il suo stato interiore. E  tanti allora contemplavano con gli stessi sentimenti il mistero di Dio. Gli uomini di mattina presto si alzavano per andare a lavorare a piedi in campagna e mentre erano in cammino e passando davanti ad una chiesa chiusa facevano un gesto di venerazione verso Colui apparentemente prigioniero in chiesa, senza sapere  che in realtà lo  stavano onorando con quello stesso gesto anche fuori della chiesa! Quel mondo purtroppo non esiste più!

Ritornare indietro purtroppo mi  sembra impossibile, sebbene il mio pensiero si soffermi spesso sul quel passato così  profondamente inondato di sacralità ! E’ anche vero che dovremmo escogitare un approccio più delicato e sensibile al mistero di Dio e non trasformare i momenti della celebrazione in un clima di spettacolo che non ha nulla di divino.

Adesso le confido  quello che provo quando ascolto il “gregoriano”: il mio spirito s’innalza fino ad arrivare a  fondersi con qualcosa di divino che mi dona pace e mi fa toccare , misticamente la celestialità e mi sento così immersa nella contemplazione del Dio vivente da, (per quanto mi è dato di  capire), immaginare come le anime vivono l’eternità, obliando le cose materiali come se non ne avessero mai fatto esperienza nella loro vita carnale, come se avessero sempre vissuto di cose spirituali e nella beatitudine, e nel gaudio lodano il Signore! Forse ho fantasticato un po’ troppo o questo è quanto realmente lo Spirito Santo comunica?

Ci avviciniamo al mistero divino  in un modo unico e personale; è lo Spirito Santo che ci guida e agisce in noi. Una breve leggenda  potrebbe aiutare a capire. C’era un uomo che viveva in riva al mare e amava i gabbiani. Ogni mattina  vagabondava con i gabbiani. Centinaia di  uccelli  gli si avvicinavano . Un giorno, suo padre gli disse: “Dicono che tutti i gabbiani vengono a spasso con te: portamene qualcuno, voglio giocare con loro”. Il giorno seguente  i gabbiani danzarono nel cielo sopra di lui, mentre si trovava sulla riva, ma non si abbassarono per avvicinarglisi.

Così accade a noi. Quando si è catturati dalla dimensione della celestialità, ci troviamo nella situazione di quell’uomo che giocava con i gabbiani e lo poteva fare perché agiva in uno stato interiore distaccato, libero, sereno. Ma l’  interesse personale  , cioè qualcosa che non fa parte della nostra natura   faceva percepire  (in questo caso) ai gabbiani che avevano a che fare con un estraneo  e non con un vecchio amico;  non era più lo stesso uomo rilassato, vicino al quale i gabbiani potevano sentirsi come a casa propria, ma aveva un desiderio.

Così fa lo Spirito Santo con noi. Lui non è attratto da ciò che attrae noi. A noi  attrae l’ esteriorità, il folclore, e  attualmente tutto ciò che è rumoroso.

Lo Spirito necessita di uno stato interiore di calma, di serenità, di fiducia, di abbandono confidente.


Ci vuole spiegare la particolarità di questa musica “celestiale”?

Nelle nostre chiese viene molto spesso adoperato l’uso dell’incenso, che ha una dinamica tutta particolare. Quando fuoriesce dal turibolo, vediamo che naturalmente si dirige verso l’alto e lo fa con una leggerezza quasi estatica senza nessuna fretta e arrivando ad una certa altezza lentamente incomincia a discendere rimescolandosi con la parte che  sale. Non so se le grandi cattedrali del medioevo siano state costruite con lo stesso dinamico criterio. Se si osserva la scrittura gregoriana, si scopre che la notazione gregoriana obbedisce allo stesso principio. Note che si dirigono verso l’alto e note che si dirigono verso il basso e che  vicendevolmente si rimescolano senza nessuna interferenza, con grande calma e leggerezza: uno stato di rimescolamento graduale  con profonda  delicatezza. Sono elementi che si sprigionano in modo naturale mentre si cantano quelle caratteristiche formule gregoriane. Per questo il P. Eugene Cardine ci dice che troppi musicisti, anche non credenti, hanno esaltato la bellezza delle melodie gregoriane.

La Chiesa latina ha l’onore di venerare la Suora benedettina Hildegard von Bingen (scrittrice, drammaturga, poetessa, musicista, filosofa, linguista, naturalista e soprattutto la prima donna a cui papi e imperatori permisero di parlare in pubblico) dichiarata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI. Ella compose sinfonie bellissime molto difficili da tradurre dal latino medievale intorno all’anno 1000.  Quali gli altri maestri che nel corso dei secoli hanno contribuito al grande repertorio gregoriano?

Ricordiamo quasi in modo particolare  colui che scrisse preghiere diventate PATRIMONIO DELLA CHIESA UNIVERSALE, come la “Salve Regìna” e  “Alma Redemptóris Mater”, Ermanno, figlio di Eltrude e Goffredo, conte di Altshausen in Svevia, nato Il 18 luglio 1013 , detto  ‘il Rattrappito’ , perché venuto al mondo deforme. Storto e contratto, non poteva star ritto, tanto meno camminare e stentava perfino a star seduto;  le dita della mani erano troppo deboli per scrivere; le sue parole erano difficili ad intendersi.

In un mondo pagano egli sarebbe stato  lasciato morire alla nascita. Ma la sua famiglia decise di affidarlo al monastero di Reichenau fondato da Carlo Magno, che sorgeva in una deliziosa isoletta nel lago di Costanza, dove il Reno corre impetuoso verso le sue cateratte. Qui crebbe facendosi volere bene e mostrandosi piacevole, amichevole, sempre ridente, tollerante e gaio.
Imparò la matematica, il greco, il latino, l’arabo, l’astronomia e la musica. Scrisse un intero trattato sugli astrolabie nella cui prefazione leggiamo: ‘Ermanno, l’infimo dei poveretti di Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco, anzi, di una lumaca  è stato indotto dalle preghiere di molti amici  a scrivere questo trattato scientifico”. Aveva sempre cercato di risparmiarsi lo sforzo, con ogni sorta di pretesto, ma, in realtà, soltanto a causa della sua ‘massiccia pigrizia’; tuttavia finalmente poteva offrire, all’amico al quale il libro è dedicato, la teoria della cosa, e aggiungeva che, se l’amico l’avesse gradito, avrebbe cercato, in seguito di svilupparlo su linee pratiche e più particolareggiate. E, con quelle sue dita tutte rattrappite, l’indomabile giovane riuscì a fare astrolabi, orologi e strumenti musicali. Mai vinto, mai ozioso!
In quanto alla musica – magari i nostri coristi d’oggi leggessero le sue parole! – egli affermava che un buon musico dovrebbe essere capace di comporre un motivo passabile, o almeno di giudicarlo, e poi di cantarlo. ” In generale i cantori – diceva – si curano del terzo punto soltanto, e non pensano mai. Essi cantano, o, per meglio dire, si sgolano, senza rendersi conto che nessuno può cantar bene se la sua mente non è in armonia con la sua voce. Per tali cantanti da strapazzo una voce forte è tutto ciò che conta. Il che è peggio di ciò che fanno i ciuchi i quali, dopotutto, fanno assai più rumore, ma non alterano mai un raglio con un muggito. Nessuno tollera gli errori di grammatica, ma le regole della grammatica sono artificiali mentre ‘la musica sgorga diritta dalla natura’ e in essa non soltanto gli uomini non correggono gli errori che commettono, ma giungono fino al punto di sostenerli…” 

Come si vede, l’allegro piccolo storpio sapeva, all’occorrenza, usare un linguaggio assai caustico!
Ermanno era dotato di un cervello straordinariamente attivo e vigoroso, aveva accesso a molti libri antichi che andarono distrutti  negli anni successivi a causa dei diversi saccheggi e incendi  subiti dalle biblioteche degli antichi monasteri . Egli scrisse oltre ad alcuni manoscritti anche un Chronicon di storia del mondo dalla nascita di Cristo, un’opera  lodevole e apprezzata dai critici del tempo, fondata  sulle tradizioni, obiettiva e originale. Eccovi dunque il monacello storpio, chiuso nella sua cella, ma desto, vivo, con gli occhi spalancati ,mai cinico,  mai crudele nonostante la sua infermità e capace di narrare un quadro completo della storia  europea.

Venne il momento di morire e il suo amico e biografo Bertoldo così scrisse: “Quando alfine l’amorevole benignità del Signore si degnò di liberare la sua santa anima dalla tediosa prigione del mondo, egli fu assalito dalla pleurite e trascorse quasi dieci giorni in continue e forti tribolazioni. Un giorno, nelle prime ore del mattino, subito dopo la santa messa, io, che egli considerava il suo più intimo amico, mi recai da lui e gli chiesi se si sentisse un poco meglio e mi rispose  che la notte precedente gli era parso di essere intento a rileggere quel famoso Hortensius di Cicerone con le molte sagge osservazioni sul bene e sul male, e gli erano passate per la mente tutte le cose che egli stesso aveva avuto in animo di scrivere su quello stesso argomento. E sotto la forte ispirazione di quella lettura  – raccontava il moribondo –  tutto il mondo presente e tutto ciò che ad esso appartiene, questa stessa vita mortale era divenuta meschina e tediosa e, d’altra parte, il mondo futuro, che non avrà termine, e quella vita eterna, erano divenuti indicibilmente desiderabili e cari, così da considerare tutte queste cose passeggere non più dell’impalpabile calugine del cardo. Sono stanco di vivere”. All’udire queste parole di Ermanno, Bertoldo non seppe più trattenersi, reagendo con grida scomposte e pianti! Ma Ermanno tutto indignato lo rimproverò, tremando un po’ per l’ira e guardandolo con aria di meraviglia gli disse: “Amico del mio cuore non piangere, non piangere per me!” Dopo di che chiese a Bertoldo di prendere le tavolette per annotare alcune ultime cose. “E –   ricordandogli che anche lui dovrà  morire in un giorno e in un’ora che non sa –  aggiunse il morente – verrai  con me, il tuo caro, caro amico.”

Queste le sue ultime parole. Ermanno morì, circondato dagli amici, dopo aver ricevuto il corpo e il sangue di Cristo nella santa comunione, il 24 settembre del 1054 e fu seppellito nei suoi possedimenti di Altshausen ai quali aveva rinunciato da così lungo tempo.
E il Martindale così conclude: “La prima volta che mi venne tra le mani questa sua Vita in un vecchio testo latino tutto accartocciato, nella biblioteca di Oxford, fu, per me, come se una ventata di aria purissima fosse penetrata a disperdere l’atmosfera stagnante della stanza. Poiché la Vita, come la scrisse Bertoldo, è così  pulsante, che Ermanno ne esce veramente vivo! Non perché sapesse scrivere sulla teoria della musica e della matematica, né perché seppe compilare minuziose cronache storiche e leggere tante lingue diverse, ma per il suo coraggio, la bellezza dell’anima sua, la sua serenità nel dolore, la dolcezza dei suoi modi che lo resero ‘amato da tutti”.  Senza dubbio allevare bene il corpo è cosa importante, ma l’educar bene la mente è la cosa principale e questa educazione deve essere fondata sull’amore e sulla religione .In questo povero, contorto ometto del medioevo, brilla il trionfo della fede che ispirò l’amore e il trionfo dell’amore legato alla fede professata. Ermanno testimonia che il dolore non significa  infelicità, né  che il piacere s’identifica con  la felicità”.

In Europa, notevole in questo ambito è la testimonianza musicale di Hildegard von Bingen (Santa Ildegarda), nata a Ber-mersheim vor der Höhe, vicino ad Alzey, nell’Assia-Renana nell’estate del 1098, di cui ci rimangono numerose antifone, responsori, sequenze ed inni, scritti per le tante feste dell’anno liturgico. “O virtus sapientiae” è un’antifona presente come secondo brano nel Rupertsberg Codex del 1180-1190, attualmente conservato a Wiesbaden, in Germania, e si discosta dalle antifone tradizionali per il fatto che non è un ritornello estratto da Salmo ma un arrangiamento di un testo creato appositamente. Hildegard descrive la visione della sapienza rappresentata da una forma astratta che ha tre ali: le tre ali “coprono” il cosmo, la terra e qualsiasi altra cosa, simboleggiando anche la Trinità. Nel campo della musica profana, accanto alla poesia cortese dei Trovatori, troviamo anche i componimenti amorosi di poetesse, le Trobairitz. Per tutto il XII e XIII secolo, le donne della corte dovevano essere in grado di cantare, suonare strumenti, e scrivere jeux-partis, o partimen (un dialogo o dibattito in forma poetica). Della compositrice Beatriz (Comtessa) de Dia, originaria del Delfinato, vissuta nella seconda metà del 1100 tra Provenza e Lombardia, ci è giunta una musica completa, “A chantar”, che dà il titolo al concerto qui presentato. La canzone contiene alcuni dei versi più belli della lingua provenzale, densi di pathos, che possono sgorgare soltanto dal cuore di una donna ferita nell’amore: “Devo cantare di ciò che non vorrei, tanto mi amareggia colui di cui sono l’amore, poiché l’amo più di ogni altra cosa; …”Anche nel nord della Francia, la terra della lingua d’oil e dei Trovieri, svolsero la loro attività poetesse musiciste: sebbene quasi tutte le loro composizioni siano anonime, comunque conosciamo da documenti e citazioni almeno otto nomi di dame compositrici. Un considerevole numero di documenti letterari, civili e iconografici sottolinea la natura della presenza femminile nella musica e società del XII, XIII e inizi del XIV secolo: nonostante le donne avessero accesso a tipi di educazione ridotte rispetto alle opportunità date agli uomini, esse nondimeno erano attive come cantanti, compositrici e poetesse; inoltre, uomini e donne a tutti i livelli della società componevano ed eseguivano canti in numerosi generi e forme, incluso canzoni di corte, canti a ritornello come rondeau e ballate, lamenti, canti epici e mottetti francesi, in una varietà di circostanze sia pubbliche che private; e ancora, le donne  il soggetto del repertorio canoro delle donne poteva essere  maschile e femminile.

Le donne hanno creato musica  sin dal Medioevo, lavorando fin dai tempi più antichi come cantanti e danzatrici, girovaghe, animatrici di fiere,  facendo spettacoli nelle piazze e nelle corti principesche, per il popolo e per i nobili, patendo spesso il disprezzo generale dell’epoca in cui sono vissute. Il primo musicista storicamente attestato è Hemre, antico direttore della musica egizia vissuto intorno al 2723 a.C.: Hemre è una donna, bella e con una carica ricoperta di tutto rispetto per l’epoca. Una delle prime  musiciste “italiane” di cui abbiamo notizia è Calpurnia, moglie di Plinio il Giovane, nata a Comum (Como) nell’86 a.D.   Plinio la elogia e la sceglie per cantare i suoi versi , che  modula sulla cetra, con musiche da lei create.  Nel quarto secolo alcuni uomini di chiesa denunciarono la presenza di canti femminili a contenuto indecente e nel 789 un capitolare di Carlo Magno ammonì le badesse affinché impedissero alle suore di comporre e inviare dai conventi canzoni profane.

La tradizione della Chiesa in Oriente è per certi aspetti meno frammentata di quella occidentale. Nel secolo IX troviamo addirittura tre figure femminili di una certa importanza: Kassia, Teodosia e Tekla. Kassia,  badessa di Costantinopoli vissuta tra l’810 e l’865. Di lei ci rimangono circa cinquanta composizioni sacre, di cui ventitré sicuramente autentiche, nel genere degli inni «tropari», con testi ispirati alle principali sante e alla Vergine Maria. L’inno che viene presentato come primo brano del concerto è “Υπὲρ τὣν Ελλήνων παιδείαν” “Ypèr tin ton ellìnon pedhìan”. Cantato nel servizio dell’Orthros del 13 Dicembre, è un inno in cui Kassia celebra la preferenza dei martiri per l’insegnamento dei discepoli di Cristo, i pescatori, sull’insegnamento degli antichi Greci che erano pagani.
Teodosia fu badessa in un monastero vicino a Costantinopoli, e di lei si ricorda un canone di 220 versi dedicato al beato Ioannikios, morto nell’846.
Anche Tekla diresse un monastero femminile presso la capitale bizantina, e le viene attribuito un canone in onore di Maria Theotokos, l’unico conservatosi attraverso i secoli che sia stato scritto da una donna.

Tra i contemporanei ricordiamo anche il noto e scomparso, don Anselmo Susca.

Certo il nostro monastero deve molto al caro p. Anselmo. Profonda la sua passione  verso questo canto meraviglioso e celeste, quale è il gregoriano.  Ricordo  il suo impegno e il suo contributo alle   riviste gregoriana “Revue Grégorienne” ed “Etudes Grégoriennes” edite dal monastero di Solesmes.

L’Abbazia di Noci è famosa per il corso di canto gregoriano che ogni anno si svolge nei mesi estivi. Numerosi i partecipanti?

Ogni anno c’è una notevole affluenza.  Il concerto finale chiude  il corso  con l’augurio  di ritrovarsi l’anno successivo, tuttavia  credo che per adesso sia rimandato a causa della recente pandemia da coronavirus.

Uno sguardo verso Oriente. Al canto gregoriano si contrapponeva quello bizantino della Chiesa d’Oriente. Ambedue elevano lo spirito alle cose del cielo, alla contemplazione e ci pongono in adorazione di Colui al quale dobbiamo ogni cosa. In cosa si contraddistinguono? E in cosa invece, se così si può dire, si ritrovano?

Gli studiosi sono sempre più interessati alle componenti dei due cicli: quello dell’Oriente e quello gregoriano. Tante le somiglianze e le diversificazioni che appassionano gli studiosi. Già Tertulliano verso la fine del sec II esortava i cristiani a cantare: “… ciascuno è invitato a cantare a Dio in mezzo all’assemblea un canto tratto sia dalle Sacre Scritture sia dal proprio genio”. Il culto religioso era composto da  vari elementi: letture bibliche, canto dei salmi e altre preghiere. Un lettore leggeva o traduceva o recitava o improvvisava. L’assemblea, in genere di media cultura, recitava preghiere a memoria, il Pater, alcune acclamazioni o litanie, alternate ai salmi, col sacerdote o con il lettore. Abbiamo detto che spesso nei primi tempi si utilizzava la traduzione, in quanto si utilizzava la lingua greca. E’ difficile determinare la forma di canto sia nei recitativi del solista, sia nelle risposte-acclamazioni dell’assemblea. Da una parte i testi e la loro articolazione si ricollegavano alle tradizioni religiose della Sinagoga; dall’altra l’influenza della civiltà e i costumi ellenici, benchè più appariscenti che profondi, avendo invaso  il bacino mediterraneo  sono presenti in tutta la letteratura patristica primitiva.

Nel canto della Sinagoga non compare nessuna contaminazione da parte del culto pagano. La conoscenza della musica bizantina ci aiuta a capire i tratti comuni alla liturgia sinagogale e a quella primitiva cristiana:

1) La preminenza della parola. Il canto entra come ornamento della parola, in modo che «ogni parola è più o meno cantillata, per ricevere dal suono musicale quell’ampiezza sonora, quella solennità che la porta fino alle regioni istintive dell’essere» (Corbin). Questa forma di canto riguarda i testi in prosa e fa uso di un numero ristretto di gradi.

2) Il ritmo è strettamente dipendente dal linguaggio, con la differenza che nel canto cristiano i momenti d’ inflessione sono regolati e ricorrenti, per cui le formule melodiche che vi si applicano sono brevi e poco varie; nel canto ebraico le formule sono brevi e semplici, ma suscettibili di una varietà e libertà di sviluppo pressoché indefinite. La libertà di linguaggio permette una estrema libertà ritmica.

3) La tecnica di composizione è pressoché simile. Non si tratta tanto di inventare melodie: «il cantore conosce gli elementi appresi a memoria e li mette insieme cantando, sistemandoli, unendoli, abbellendoli secondo una tecnica di variazioni molto sagace». (Corbin).

È un fatto spontaneo che il culto passi dalle Sinagoghe alle Catacombe. Ma contemporaneamente a questa realtà incontestabile si va verifica parallelamente l’altro fenomeno: la cultura pagana passa dal IV secolo nelle mani della Chiesa. In essa fanno ingresso uomini con vasto patrimonio di cultura classica. La musica comunque è l’arte che meno risente di questa trasmissione culturale. Resta tra musica greca e musica ebraico-cristiana una sostanziale diversità: per gli ebreo-cristiani la musica è un’amplificazione della Parola sacra; per i greci «la musica esiste per se stessa, e da se stessa» (Corbin). Per la musica greca gli elementi più importanti sono i suoni nella loro individualità, mentre nel mondo cristiano è la melodia che è presa in considerazione come un insieme, un tutto. L’Occidente continuerà ancora per molto tempo «a pensare in formule: ci vorranno ancora molti secoli per pensare in note» (Corbin).

Resta comunque difficile una diretta derivazione del canto liturgico cristiano dalla musica greca. Per cui il canto liturgico più che considerarsi come una manifestazione d’arte o di cultura, prende la forma di un «Linguaggio solenne» della Chiesa: è piuttosto una scienza anziché un’arte, secondo la nostra definizione moderna.

Se la struttura formale resta legata e derivante dalla liturgia ebraica, è innegabile che i valori estetici dell’arte classica della Grecia, filtrati attraverso ì numerosi scrittori cristiani, hanno senza dubbio condizionato il gusto creativo e inventivo dei primi compositori.

Presto il pensiero greco passa ad informare gli scritti dei primi Padri, i quali mentre rifiutano l’estetica formalistica di coloro che tolgono al ritmo e alla melodia qualunque valore morale, recepiscono dai greci il valore etico della musica.

Secondo lei la musica è un punto d’incontro tra le due chiese sorelle (Cattolica e Ortodossa), che rafforza o potrebbe rafforzare il vincolo di unità che le lega nella fede, in un dialogo costruttivo nella ricerca della Verità nella carità?

Certamente ce lo auguriamo tutti che questo possa avvenire. Lasciando però ciò che di valido si è costruito in tutti questi secoli che ci hanno preceduto. E una loro vicendevole accoglienza non potrebbe non affascinare i devoti di queste tradizioni secolari.

Dove comincia il canto e dove la preghiera?

Rispondere a questa domanda crea un certo tipo di problemi. Esiste una preghiera senza parole, allora è il cuore che prega attraverso l’esperienza del silenzio. Il silenzio ha la capacità di cantare nella interiorità delle persone e quante preghiere silenziose sono fuoriuscite dalle profondità silenziose degli esseri umani. Ci sono infine le preghiere che sentono il bisogno di far pervenire alla maestà di Dio ciò che nel silenzio di noi stessi si prova verso di lui. Allora si trasforma in canto, in melodia, in jubilus, come racconta così bene S. Agostino nella lettura biblica di S. Cecilia, e in quel caso la melodia diventa irrefrenabile e potentemente udibile.

Il canto ha a che fare con la dimensione interiore dell’essere umano, ma stimolata dalla personale dimensione artistica e di conseguenza assai soggettiva. Ad alcuni una determinata sinfonia può piacere, ad altri può dare la sensazione di noia. A me personalmente la 2 sinfonia di Malher (denominata appunto: “Risurrezione”) crea uno stato di parossismo estatico e profondamente suggestivo, ma non mi permetterei di denominare “preghiera” ciò che sto effettivamente provando.

C’è differenza tra il canto-preghiera del singolo, il canto-preghiera della Comunità e il canto-preghiera liturgico?

RISPOSTA :  Tutto ciò che è beatitudine interiore porta dentro di sé qualcosa di divino. Dunque possiamo denominare preghiera tutto ciò che fuoriesce dal nostro mondo interiore, come atto di gratitudine. E’ canto-preghiera quella del singolo nel silenzio del suo cuore. E’ canto-preghiera quella fatta da una comunità sorpresa dalla immensità di Dio. Ed è canto-preghiera quella che viene eseguita nella solennità di una sentita e partecipata liturgia in cui i vari canti facilitano un contatto più coinvolgente con la immensità del divino. S. Giovanni Crisostomo ha scritto un inciso molto suggestivo: “Dio stesso aggiunse la melodia alla parola dei Profeti, perché gli uomini rallegrati dal fascino della melodia cantassero inni a Lui con allegrezza”.

Quando la musica diventa sacra?

Entrano in ballo tanti fattori personali che influiscono in modo determinante dentro di noi. Il termine “sacro” è entrato in tanti innumerevoli aspetti della nostra vita. Per esprimere una certa rilevanza di qualcosa che ci è accaduto, facilmente diciamo che ci è accaduto qualcosa di sacro, anche se con il sacro non ha nulla a che fare. Ma non troviamo parola migliore del termine: “sacro”. Naturalmente non è in questo modo che vorremmo utilizzare questo termine. Sacro ci vuol far entrare in una visione particolare del nostro essere. Con questo termine vorremmo esprimere qualcosa che riguarda la nostra dimensione più intima e profonda. Sarebbe quella zona di noi stessi in cui ci sentiamo quasi trasportati in un’altra realtà da cui emergono sensazioni nuove ed inesplorate. Sensazioni in cui lacrime di pienezza affiorerebbero dal nostro intimo, sensazioni a cui non sapremmo dare nessun nome, ma che nello stesso tempo sono vere e reali dentro di noi. Certo posso ascoltare il Requiem di Mozart e provare dentro di me una pienezza di sentimenti mai provata, che mi fa pensare a qualcosa di sacro. Ma la sensazione che si prova ascoltando un brano gregoriano è di tutt’altro spessore. Quando vi partecipo interiormente, sento che qualcosa di indicibile nasce dentro di me e sento quasi il bisogno di fare silenzio dentro di me, per fare in modo che ciò che sto provando continui ancora a sussistere dentro di me,  e che continui all’infinito. Ma le parole sono incapaci a perdurare e a rendere fruibile questa esperienza.

Cinzia Notaro