Il simbolismo del matrimonio nel Vecchio e nel Nuovo Testamento – Proposte di Rinnovamento

matrimonio

Introduzione

Nel presente il ritorno alle fonti è più che auspicabile, per cui, volendo rendere un servizio alla chiesa bizantina italiana, ho inteso ripristinare il rito dell’incoronazione secondo l’antica disciplina. Sarebbe bene, pertanto, che le proposte di rinnovamento, che svincolano la cerimonia dai vari compromessi storici, venissero prese in considerazione nell’intento di restituire al matrimonio il suo genuino significato.

A sua volta la disposizione del can. 828 del Codice delle Chiese Orientali nella forma ordinaria stabilisce di benedire l’unione nuziale secondo le norme liturgiche della propria chiesa sui iuris. Le Eparchie, di conseguenza, potrebbero modificare l’attuale celebrazione se la loro valutazione comportasse un giudizio positivo dell’elaborato.

Va, tuttavia, evidenziato che l’aspetto tradizionale della funzione, cara ai fedeli, subisce solo un ridimensionamento nell’ambito della liturgia, che dovrebbe assumere, non nella normativa canonica, ma nella visione teologica, il ruolo centrale del sacramento del matrimonio.

A salvaguardia della presente armonizzazione, la prassi della chiesa primitiva e la legislazione in vigore sono state tenute sotto stretto controllo per garantire all’unione coniugale la sua validità.

A –  TEMA  NUZIALE

Nell’antico Testamento il simbolismo delle nozze, usato prevalentemente per esprimere le relazioni tra Dio ed il suo popolo, trova il fondamento dottrinale nel patto tra Dio ed Israele; il popolo eletto deve essere fedele esclusivamente al suo Dio che si è impegnato a proteggerlo in modo speciale. Questa relazione tra Dio e Israele non è solamente una relazione giuridica, ma comporta anche un mutuo amore che non viene mai meno, il popolo può sempre tornare a lui con la piena fiducia di esser accolto.

Questo simbolismo appare per la prima volta, nel libro di Osea. Il profeta, dopo l’alleanza del Sinai, rappresenta con l’immagine dell’unione nuziale i rapporti del Signore con il suo popolo e qualifica il tradimento idolatrico di Israele non tanto come prostituzione quanto come adulterio. Malgrado tutto, Dio cercherà di riconquistare a sé il suo popolo. Se Dio castiga non vuole abbandonare colei che ama, ma risuscitare nel suo cuore un amore più ardente. L’amore tradito perseguiterà l’amata fino a quando essa ritornerà al suo sposo. Scrive in proposito il profeta: <correrà dietro i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: voglio tornare al mio sposo di prima perché allora ero più felice di ora ……Pertanto ecco che io  la sedurrò, la condurrò al deserto e le parlerò al cuore……Ti sposerò a me per sempre; ti sposerò a me con giustizia e rettitudine, con pietà e affezione; ti sposerò a me con fedeltà, e tu farai conoscenza del Signore>  (Os. 2,9; 2,16; 2,21-22)

Il presente tema sarà ripreso da Geremia (Ger. 3,6-12) e da Ezechiele (Ez. 16). La prima Alleanza che Dio ha concluso con Israele fu un’elezione d’amore assolutamente gratuito; la sposa nulla aveva che la rendesse attraente agli occhi di Dio; Egli le donò grazia e bellezza, ma Israele dissipò i doni dello Spirito comportandosi come una volgare prostituta.

Nella seconda parte del libro di Isaia, la piena riconciliazione di Dio con il popolo eletto è profetizzata con l’immagine delle nozze tra Jahvè ed Israele. Il profeta configura il ritorno d’Israele ad una sposa infedele che, dopo averla messa alla prova, le renderà la gioia del primo amore rendendo incrollabile ed indefettibile il suo amore. Isaia così fa parlare Dio in relazione alla riappacificazione che trova il suo confronto nella restaurazione d’Israele: <Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto, e la gioia, che trova lo sposo per la sposa, la troverà per te il tuo Dio (Is. 62,5).

Come anello di congiunzione tra i Profeti ed il Cantico dei Cantici si pone il Salmo 44.

Nella descrizione che emerge il salmista vede la sposa entrare nella casa dello sposo in abiti preziosi e di vario colore. Dietro a lei, in festoso corteo, le sue compagne. A questo punto il poeta si rivolge a lei e la esorta a dimenticare la sua patria d’origine e la sua famiglia.

Il Cantico dei cantici svilupperà tutta la dottrina delle relazioni d’amore che intercorrono tra Dio ed il suo popolo. L’amore di Dio per Israele e quello del popolo per il suo Dio sono presentati come i rapporti tra due sposi. In questo poema dal senso allegorico, il pastorello che senza posa ama, cerca, invita, perdona ed asseconda l’amata è Jahvè, che non abbandona mai il suo popolo anzi lo riunisce a sé in modo indissolubile nella piena e perfetta realizzazione delle sue promesse. A sua volta la pastorella che anela all’amplesso dello sposo, che desidera la presenza, che resiste agli inviti dei pretendenti, gli dei delle nazioni pagane, e che, se anche qualche volta si mostra fredda all’amore dello sposo, è il popolo di Israele, che nel corso della sua storia si è mantenuto fedele a Dio e più ancora lo vuole essere per l’avvenire con un amore duraturo ed indissolubile, fatto di fiducia e di fedeltà.

La lunga storia di amore dell’Antico Testamento ha il suo compimento quando, nell’Incarnazione, Dio celebra le nozze del Figlio con l’umanità.

Giovanni il Battista considera il Messia come lo sposo di cui egli è l’amico: <Nessuno può prendere nulla se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: non sono il Messia, ma sono stato mandato innanzi a lui… chi ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che l’assiste e l’ascolta, è felice alla voce dello sposo. Questa, dunque, è la mia gioia, ed è giunta al colmo. Lui deve crescere, io diminuire> (Giov. 3,26-30).

Nel Vangelo di Matteo, Cristo presenta il Regno dei cieli come una celebrazione nuziale (Mt. 22,2; 25,1), di cui i suoi discepoli sono chiamati i figli dello Sposo (Mt. 9,15; Lc 5, 34-35).

S. Paolo ha visto nell’unione dell’uomo e della donna la figura più espressiva dell’unione fra Cristo e la Chiesa (Ef. 5, 21-32). Egli stesso considera il suo lavoro apostolico come il tramite di un fidanzamento tra le anime e Cristo (2 Cor. 11,2). Infatti, dopo il rifiuto opposto da una parte di Israele alla proposta d’amore del Figlio  di Dio (Mt. 22,3), Egli ha cercato la sua Sposa <ai crocicchi delle strade e per le vie del mondo> (Mt. 22,9-10), per santificarla e purificarla da ogni lordura, al fine di presentarla a se stesso tutta splendente, senza macchia o ruga, ma santa ed immacolata (Ef. 5,26-27). L’Apostolo ammonisce, inoltre, la sposa a non lasciarsi corrompere dal serpente, che, dopo aver sedotto Eva con la sua astuzia, cerca in tutti i modi di deviarla dalla sincerità e purezza che deve conservare per Cristo (2 Cor. 11,3).

Infine S. Giovanni, nell’Apocalisse, apre un velo sul futuro mostrandoci la magnificenza della Sposa dell’Agnello, e lasciando intravedere prossimo il suo definitivo ed eterno congiungimento con Cristo nel cielo (Apoc. 19,7-9; 21,2; 22, 17-20). È opportuno, tuttavia, rilevare che nel Nuovo Testamento, per quanto questo simbolismo venga applicato alla Chiesa, mediatamente riguarda anche la situazione dei singoli.

Nella lettera agli Ebrei, (1, 3-4), S. Paolo, infatti, dopo aver descritto la divinità di Cristo come <fulgore della gloria ed impronta della sostanza divina>, asserisce che il suo regno è eterno, che Cristo è il re dei secoli, il re forte e potente che avanza nel mondo e combatte per la verità e la giustizia. L’Apostolo dichiara, inoltre, che Cristo è l’Unto di Dio per eccellenza e l’alleanza da lui stabilita sulla terra è di gran lunga superiore a quella dell’Antico Testamento della quale gli angeli erano i ministri.

La Sposa, contemplando la gloria sovrumana dello Sposo, sa di essere partecipe delle sue divine prerogative. È consapevole che la grazia che il Padre ha riversato sul Figlio, questi, a sua volta, ha reso completamente partecipe la chiesa, da farla diventare la sposa più bella tra i figli degli uomini.

La Chiesa vede il suo mistero avverarsi nella Vergine Maria che di lei è un membro sovreminente e del tutto singolare e sua figura. Essa è <la figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per il quale dono di grazia precede di gran lunga tutte le creature celesti e terrestri> (Cost. sulla Chiesa, 53).

Con Maria è introdotto il corteo delle sante Vergini; di queste ha parlato Gesù nel Vangelo, asserendo che, pronte all’arrivo dello sposo, entrarono con lui nella sala nuziale (Mt. 21, 1-10).

Di questa gloria partecipa tutto il popolo cristiano <stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa> (1 Pt. 2,9); ad essi Cristo disse: <Voi che mi avete seguito, nella rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sederà sul suo trono glorioso, sederete anche voi sui dodici troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele> (Mt. 19,28).

L’atteggiamento che ciascuno di noi deve avere per ricevere lo Sposo al suo arrivo, sull’esempio di Maria e delle Sante Vergini, va improntato a fedeltà, prudenza e vigilanza (Mt. 25, 1-10).

Negli scritti dei Padri, l’immagine della chiesa sposa di Cristo costituisce una delle categorie principali della loro ecclesiologia. Il simbolismo nuziale, è da loro frequentemente esteso, non solo ai giusti, ma anche ai vari gradi dell’unione dell’anima con Cristo.

Origine applica sistematicamente la figura della sposa alle <anime ecclesiastiche>, vale a dire alle anime santificate che formano la chiesa, sposa immacolata (P.G.13,46;13,191). Basilio di Ancira esplicitamente afferma:  “facciamo comprendere sapientemente, partendo dall’unione matrimoniale, l’unione dell’anima razionale con il Verbo divino (P.G. 30, 767). S. Basilio il Grande, spiegando il Salmo 44, vede nella sposa regale l’immagine dell’anima che <unita come sposa al Verbo, non più soggetta alla tirannia del peccato, ma fatta partecipe del regno di Cristo, è posta alla destra del Salvatore in un vestito d’oro, cioè arricchita di dottrine spirituali> (P.G. 29, 407). Gregorio Nisseno, interpretando il Cantico dei Cantici, trova ivi descritta l’unione delle singole anime con Dio, mediante la carità e mostra che si compie nella notte della contemplazione per mezzo della comunicazione di molteplici benefici (P.G. 44, 765, 766; 44, 891). Nelle Omelie spirituali, attribuite a Macario il Grande, risulta con evidenza che ciò che è stato detto nella scrittura della Chiesa, si può riferire anche alle singole anime (P.G. 34, 566). Questi, paragona la relazione tra l’anima e Cristo ad una povera donna data in sposa ad un nobile principe che la ricolma di doni per avere con lei una piena comunione (P.G. 34, 791).

Il mistero nuziale tra il Figlio di Dio e l’umanità, compiutosi in Maria e partecipato alla Chiesa, si manifesta in modo più perfetto nei gradi ulteriori della vita cristiana.

La storia della Redenzione del Vecchio e del Nuovo Testamento, frequentemente si proietta in questo rapporto nuziale tra Dio ed il suo popolo e tra Cristo e la sua Chiesa. Esiste, tuttavia, una differenza sostanziale: mentre nel Vecchio Testamento il matrimonio, basato sull’amore eterno dell’uomo e della donna, si presenta come immagine ideale, nel Nuovo Testamento, invece, il suo significato fondamentale si qualifica come unione indistruttibile, come figura del Regno di Dio sulla terra e, in senso profetico, come punto di giuntura che ci introduce nella gioia eterna e nell’eterno amore.

B         EUCARISTIA:  SIGILLO  DEL  MATRIMONIO

Nel Paradiso Terrestre Dio ha istituito il matrimonio come un vincolo sacro. Ha santificato Adamo ed Eva ed anche la loro unione. Con il peccato originale gli uomini si sono separati da Dio ed hanno nascosto il loro amore. Da allora fu distrutto anche il vincolo matrimoniale come segno della mutua donazione: la donna diventò schiava dell’uomo.

Il Vecchio Testamento non poteva ridare al matrimonio il suo valore e la sua santità. È stato Cristo che con la nuova Alleanza, riconciliando l’essere umano con il Creatore, ha anche rinnovato il matrimonio.

La partecipazione di nostro Signore alle nozze di Cana, dove compie il primo segno trasformando l’acqua in vino, indica un profondo mistero. Il vino che Egli offre è il simbolo del sangue prezioso da Lui versato per la chiesa sua sposa e che ad essa dà come bevanda nella Santa Eucaristia.

Questo rapporto trova conferma negli scritti dei Padri. S. Epifanio, verso il 375, in relazione alla partecipazione di Cristo alle nozze di Cana, così si esprime: <Uno sposalizio venne celebrato a Cana di Galilea in visibile realtà, e veramente l’acqua diventò vino. Egli fu invitato per due ragioni, affinché per mezzo del matrimonio potesse correggere la licenza dell’uomo corrotto dalle passioni di questo mondo, portandolo al ritegno e alla serietà, e affinché, per il futuro, potesse emendare il suo tenore di vita, portandolo alla dolcezza del vino corroborante e alla grazia.>  (Adv. Haereses 51, c. 30)

Nel secolo seguente San Cirillo di Alessandria così commenta lo stesso miracolo:  <Cristo, invitato, andò con i suoi discepoli alle nozze, non tanto per recarsi ad una festa, quanto piuttosto per operare un miracolo, e, inoltre, per santificare quello che è la sorgente dell’umana generazione, almeno per quanto riguarda il corpo. Era infatti conveniente che colui che venne per rigenerare la natura umana, non soltanto portasse la sua benedizione su quelli che già erano stato portati all’esistenza, ma preparasse pure la grazia per quelli che dovevano nascere in seguito, e santificasse il mezzo per cui dovevano venire ad esistere>.  (P.G. 73,223)

S. Giovanni Damasceno ravvisa nel miracolo delle nozze di Cana di Galilea la santificazione del matrimonio cristiano allo stesso modo che nel battesimo di Gesù nel Giordano la santificazione dell’acqua battesimale. (De Fide Ort. IV, 24)

L’insegnamento dei Padri è esplicito:  erano della convinzione che Gesù, trasformando l’acqua in vino alle nozze di Cana, ha cambiato per sempre il carattere del matrimonio, santificando l’unione coniugale e conferendo al vincolo quella dignità che aveva al momento dell’istituzione.

Il disegno divino è stato realizzato sul Golgota.  Gesù ha voluto redimere la sua sposa, Israele, l’umanità, per questo diede la sua vita per lei; la strappò dalla schiavitù del demonio, la purificò e la santificò con la sua grazia. Cristo ha talmente amato la sua sposa – la chiesa – da prendere per lei la croce affinché fosse santa ed immacolata (Ef. 5,26).

Da quando sulla croce è stato stipulato il nuovo patto, il matrimonio è diventato l’immagine dell’unione tra Cristo e la sua chiesa; questo simbolo racchiude il mistero nozze cristiane.

Di questa realtà era già consapevole S. Ignazio di Antiochia. Questi, nella lettera indirizzata a S. Policarpo verso la fine del primo secolo scrive: <gli sposi e le spose contraggono la loro unione con l’assenso del vescovo affinché il loro matrimonio sia secondo il Signore e non secondo i desideri sessuali> (Pol. 5,2).

Sulla stessa linea si pone Tertulliano, scrittore cristiano del secondo secolo. Questi, in uno dei suoi scritti di carattere ascetico e pratico, attesta che:< il matrimonio viene concordato con la chiesa, fissata dal sacrificio (cioè dall’eucaristia) segnato dalla benedizione ed iscritto dagli Angeli nel cielo, e che il Padre ratifica>>. (Ad uxorem II, 9) (P.L. I, 1302).

Tertulliano allude a cinque fasi della celebrazione del matrimonio civile, e dimostra che in ognuna di esse il matrimonio cristiano sostituisce il naturale con il soprannaturale. A suo giudizio nell’oblazione dell’Eucaristia i cristiani possedevano il rito di gran lunga superiore a quello dell’offerta delle arrhae e dell’asculum; la benedizione del sacerdote era il sigillo assai più nobile di quello affisso alle tabulae; i testimoni ufficiali dell’unione non erano gli amici, la cui presenza era richiesta dalla legge romana, ma gli Angeli, ed il consenso che ratificava l’unione non era quello di un padre terreno, ma del Padre celeste.

Da queste citazioni emerge che la chiesa primitiva non conosceva un rito speciale per fissare l’unione matrimoniale, ciò, tuttavia, non significa che questa, fin da principio, non abbia ritenuto che il matrimonio fosse un <sacramento> che determinava il destino eterno dell’uomo e della donna, i quali diventano per sempre <una sola carne>.

Il compito della chiesa non era infatti quello di annullare le regole della società in cui viveva, ma di trasformarle. Per la chiesa il matrimonio assumeva un valore soprannaturale, si trasformava nel mistero del Regno quando gli sposi partecipavano all’Eucaristia con il consenso del vescovo. Di conseguenza, la normale forma di contrarre matrimonio, nei primi secoli, era doppia: il matrimonio civile determinava la legalità di fronte alla società, mentre il consenso della chiesa e la partecipazione comune degli sposi al corpo ed al sangue di Cristo durante la liturgia domenicale, costituiva il sacramento.

La chiesa era consapevole che soltanto attraverso la grazia sacramentale era possibile all’uomo essere innestato in Cristo e diventare un tralcio vivente della vera vite. Di conseguenza, nel corpo mistico della chiesa il matrimonio è qualcosa di assai più elevato di una semplice unione naturale, sia pure sacra e benedetta da Dio: rientra nell’ambito del sacramento.

Il nesso interiore tra il matrimonio e l’Eucaristia, porta a ritenere che il ministro del Sacramento del matrimonio può essere soltanto il vescovo o il sacerdote, cioè il ministro dell’Eucaristia. Inoltre, ogni cristiano nella misura in cui vive nella grazia di Cristo, partecipa all’unione della chiesa con il Signore. Il fedele viene così introdotto in una dimensione sociale che trova la sua massima espressione nell’Eucaristia, sacramento per eccellenza dell’assemblea, del culto comunitario. L’aspetto ecclesiale del popolo di Dio, riunito sotto il suo capo, Cristo glorificato, suppone che il matrimonio cristiano non va concepito come un <affare privato>, come pure esige che venga celebrato durante la liturgia domenicale, quando tutta la comunità cristiana locale <l’ekklesia> possa testimoniare dell’avvenuto sacramento e gioire del trionfo dell’amore. Il legame tra il matrimonio e l’Eucaristia, di conseguenza, esclude che le nozze vengano celebrate in tempi aliturgici.

Va inoltre osservato che per l’importanza che la scrittura e la tradizione orientale attribuiscono all’Eucaristia, non si può identificare l’oggettività del sacramento con il contratto matrimoniale. La maggior parte dei teologi greco-ortodossi considera il mutuo consenso degli sposi soltanto come la materia del sacramento, mentre non pochi teologi russi contemporanei ripongono tutto il segno sacramentale nel rito religioso compiuto dal sacerdote.

C –  GLI  SPONSALI  NEL  LORO  ITINERARIO  CIVILE  E  RELIGIOSO

Al tempo in cui il cristianesimo andava consolidandosi nell’Impero romano, nella Chiesa Greca la cerimonia del fidanzamento e quella del matrimonio rimasero distinte. L’Oriente, separando gli sponsali dal sacramento del matrimonio, distingueva il significato terreno, sociologico e giuridico del fidanzamento, dall’unione misteriosa ad immagine di Cristo e della chiesa. Il matrimonio, in virtù del suo carattere sacramentale, esigeva un periodo preparatorio e sperimentale che gli assicurasse piena consapevolezza e libertà.

Le parti salienti del fidanzamento erano la presentazione dei doni nuziali (arrhae) da parte del fidanzato alla futura moglie, che venivano considerati come pegni di proprietà da destinarsi a lei, l’accettazione dell’anello (anulus pronubus), lo scambio del bacio e la stesura del contratto nuziale, <tabulae sponsales>.

Nel caso in cui il fidanzamento si celebrava secondo le tradizionali formalità (arrhae, anulus, osculum), la rottura poteva avvenire solo per certe specifiche ragioni, come l’immoralità di una fidanzata che veniva considerata come adulterio; tale norma, prescritta da Antonino Pio e da Settimio Severo (Dig. XLVIII, 2), fu confermata da Giustiniano (Nov. CXLIII). Se l’accusa non era veritiera, la parte che mandava il <repudium> era soggetta a pene finanziarie. (Cod. V, I) Nei casi in cui le formalità non erano osservate, non occorreva specificare la causa della rottura. Inoltre, se la donna sposava un altro uomo per volontà di suo padre, non le si poteva muovere accusa di adulterio. (Dig. XLVIII, 5); se poi il fidanzato non adempiva la promessa entro due anni, il fidanzamento scadeva <ipso facto> (Cod. V, I).

Il punto di vista seguito dalla Chiesa appare nei canoni di S. Basilio. Il can. 37 stabilisce che un uomo che ha sposato una donna fidanzata ad un altro, è soggetto a pene canoniche stabilite per adulterio, cioè ad una penitenza di quindici anni. Il can. 98 del Concilio Trullano (692 d.C.) prescrive: <se un uomo prende in moglie una donna che è fidanzata con un altro, sia condannato per adulterio>.

In relazione all’età, la legislazione della chiesa non contemplava un limite minimo per contrarre matrimonio per cui i canonisti si riferivano al diritto romano. Questo permetteva il fidanzamento (sponsalia) dai sette anni in poi, ma non permetteva il matrimonio fino al compimento del quattordicesimo anno per i maschi e del dodicesimo anno per le femmine.

All’inizio del secolo VIII è stata introdotta tra le norme del fidanzamento la benedizione degli sponsali le cui preghiere sono indicate nell’eucologio Barberini a partire dalla fine del medesimo secolo. Nel frattempo, sorsero delle difficoltà tra i canonisti. Per alcuni, se si fosse trattato di una speciale benedizione per il fidanzamento la difficoltà di interromperlo sarebbe stata la stessa sia che le parti fossero sotto l’età matrimoniale, sia che l’avessero raggiunta. Per altri, la benedizione della chiesa costituiva un matrimonio legale solo per quelli di età matrimoniale, mentre per i bambini inferiori a quella età non aveva conseguenze legali. Leone VI Isaurico, (886-911) nella novella 74 risolse la controversia decretando che la benedizione non si doveva dare fino all’età legale per il matrimonio, 14 anni per i maschi e 12 per le femmine.

Una nuova situazione fu creata negli anni 1066-67 quando il Patriarca Giovanni VIII emanò due decreti sinodali in cui dichiarava che, dal momento che il fidanzamento produceva gli stessi effetti del matrimonio, i vari impedimenti che ostacolavano la celebrazione del matrimonio risultavano tali anche per il fidanzamento. (P.G. 119,756)

Il Decreto non si limitava ai fidanzamenti che erano stati benedetti dalla chiesa, ma si estendeva a tutti i fidanzamenti riconosciuti come tali dalla legge civile. In proposito si arguiva che non soltanto il Sesto Concilio Trullano can. 54, ma che le stesse leggi civili degli imperatori Teodosio e Giustiniano, ammettevano la parità tra fidanzamento e matrimonio. (Basil., lib. XXVIII, tit. 5,2 – Nov. I, XXIV,5). Il Patriarca riuscì a far accettare tale disposizione anche ai giudici secolari. Nel 1080 l’imperatore Niceforo III pubblicò una costituzione che accordava la sanzione civile ai decreti del Patriarca, adducendo il motivo che le leggi civili dovevano essere conformi ai canoni della chiesa. Inoltre, egli sosteneva il punto di vista della chiesa, che quando il vincolo viene benedetto esso viene ratificato da Dio e, quindi, è giusto che tale unione sia indissolubile come quella del matrimonio.  (P.G. 127, 1480) Va inoltre tenuto presente che tra gli ebrei il rito degli sponsali aveva i pieni effetti giuridici del matrimonio, nonostante che dopo la sua celebrazione la sposa rimanesse per dodici mesi nella casa di suo padre prima di cominciare la vita coniugale.

Il sopravvento della chiesa è stato di breve durata, infatti le difficoltà che sono nate da questa norma furono così grandi da indurre Alessio I Comneno a riformare la legislazione del fidanzamento. Egli emanò due bolle, una nel 1084, l’altra nel 1092, decretando che l’usanza già parzialmente in vigore, di avere una benedizione speciale per il fidanzamento, distinta da quella del matrimonio, divenisse obbligatoria. (P.G.104, 1180) e che il decreto del Patriarca Giovanni VIII doveva applicarsi solo ai fidanzamenti benedetti dalla Chiesa. L’imperatore dichiarò, inoltre, che questa benedizione doveva avere gli effetti civili e canonici del matrimonio, come il Patriarca aveva stabilito, ma non doveva aver luogo se non dopo il raggiungimento dell’età canonica. Inoltre, si potevano ammettere, come prima, i contratti matrimoniali per quelli che avevano compiuto il settimo anno di età, ma questi dovevano considerarsi soltanto come contratti civili e non si potevano celebrare con le arrhae ed osculum. L’effetto di questa riforma in pratica annullò le disposizioni dei decreti sinodali di Giovanni VIII. Infatti, per quanto l’intervallo tra il fidanzamento ecclesiastico ed il matrimonio fosse di breve durata, il contratto civile acquistò più importanza di quello ecclesiastico. Veniva infatti prescritto che tutte le questioni che si riferivano al contratto civile dovevano essere giudicate secondo la legge civile e non secondo i canoni. Inoltre, i fidanzamenti stipulati davanti allo Stato potevano essere garantiti da una pena pecuniaria in caso di rottura; per i fidanzamenti ecclesiastici, invece, era proibito includere qualsiasi ulteriore stipulazione. Queste disposizioni riducevano il fidanzamento ecclesiastico ad una semplice promessa che poteva essere revocata. Per gli inconvenienti che derivavano da queste prescrizioni e per la difesa del vincolo del fidanzamento non meno indissolubile di quello del matrimonio, la Chiesa ha inteso unire le due cerimonie. Questa associazione venne resa obbligatoria in Russia da un decreto sinodale del 1775. La Chiesa Greca prese lo stesso provvedimento nel 1834. Nella chiesa bizantina questa contemporaneità vige anche al tempo presente.

Le due cerimonie sono separate soltanto nei matrimoni delle famiglie reali.

D –  L’INCORONAZIONE  E  LE  RELATIVE  IMPLICAZIONI  GIURIDICHE

La Chiesa nei primi secoli non ebbe per la celebrazione del matrimonio un suo rito. Essa sanzionava il contratto civile con il consenso del Vescovo e con la partecipazione all’Eucaristia: la comunione al corpo e al sangue di Cristo ne costituiva il <sigillo>.

Per la Chiesa il matrimonio non diventava cristiano attraverso l’osservanza di regole e leggi, ma quando rappresentava l’unione di Cristo con la sua Chiesa. Il contratto giuridico veniva così sostituito da una particolare concezione dell’uomo, come cittadino del Regno di Dio, chiamato a commisurare la sua vita terrena ai valori eterni.

Testimonianze sul rito dell’incoronazione incominciano dal IV secolo. Tertulliano parla dell’incoronazione come di un rito pagano da evitarsi dai cristiani (P.G. 2, 96). Era infatti in uso presso i Romani: la sera precedente alle nozze, sia lo sposo che la sposa si ornavano con una corona di fiori. Questa era composta interamente di verbena, pianta sacra alla dea Venere. Al contrario, questa cerimonia che nei matrimoni cristiani si svolgeva durante la liturgia domenicale e consisteva in un breve rito, venne difesa da S. Giovanni Crisostomo come testimonianza di una vita pura, vittoriosa, da parte degli sposi contro le passioni carnali (P.G. 62, 546). Tra l’altro, il Crisostomo consigliava ai sacerdoti che si recavano nella casa del padre della sposa per benedire le nozze, di spiegare agli sposi il significato che la Chiesa attribuiva all’incoronazione. (P.G. 62, 546).

In questo periodo la legislazione civile non considerava la benedizione come essenziale per il matrimonio cristiano. Teodosio II e Valentiniano III nel 428 emanarono una legge per dichiarare che l’omissione della benedizione non invalidava l’unione matrimoniale. (Cod. Theod. III, 7). Anche Giustiniano, nella Novella (LXXXIX, 1) non prescrisse la benedizione come parte essenziale per la santificazione del matrimonio anche se il suo intento era quello di conformare la legislazione civile ai canoni ecclesiastici.

Per la Chiesa il rito dell’incoronazione fino al secolo VIII rimase un ornamento facoltativo delle nozze e, a quanto sembra, molto costoso. A partire dal secolo IX si registra un cambiamento di valutazione che ha portato a ritenere la benedizione sacerdotale necessaria per la validità del matrimonio e, nel secolo X, comparvero riti più evoluti per l’incoronazione, celebrati separatamente dalla liturgia eucaristica. Una importante conferma proviene dalla Chiesa di Costantinopoli la quale all’inizio del secolo IX dichiarava che dove non vi era benedizione non vi era matrimonio.

Tra le risposte di Niceforo, Patriarca di Costantinopoli (806-815), sull’argomento in esame, troviamo la seguente: <D. E’ permesso agli schiavi, uniti in matrimonio dai loro padroni senza la benedizione della Chiesa, presentarsi per l’oblazione e ricevere la comunione?

R. Una unione contratta senza la benedizione sacerdotale è un concubinato, sia che l’uomo sia schiavo, sia che egli sia libero. E siccome ai fornicatori non è permesso fare l’offerta dei doni, così neppure possono essere ammessi nella casa del Signore> (Pitra Ius. Eccl. Graecorum (Roma 1868 – T. II p. 346)  E’ tuttavia rilevante tener presente che nella chiesa greca i decreti ecclesiastici non entravano in vigore senza la convalida imperiale per cui la prescrizione del Patriarca non ebbe l’effetto di invalidare tali unioni.

E’ stato Leone VI (886-912), con la novella 89 emanata nell’893, che per primo promulgò una legge che rendeva obbligatoria la coronazione per i matrimoni tra i cittadini liberi dell’impero. Con tale disposizione, un matrimonio non benedetto dalla chiesa non era chiamato matrimonio, ma concubinato. L’effetto legale al matrimonio veniva conferito dalla sola incoronazione ecclesiale. I servi e gli schiavi, non avendo diritti giuridici, non potevano concludere matrimoni legali.

La coscienza cristiana di Bisanzio non tollerò a lungo questa stridente ingiustizia.

È stato l’imperatore Alessio Comneno (1081-1118) che emanò un decreto nel 1095 con il quale rese obbligatorio anche per gli schiavi la benedizione della Chiesa (P.G. 137,802,803).

Questa pagò a caro prezzo la responsabilità civico-sociale che assumeva nell’ambito del matrimonio. Infatti, venne posta nella condizione di accettare tutti i compromessi che provenivano dalle leggi imperiali, non esclusi quelli che contraddicevano alle norme ecclesiali. Il confine tra il matrimonio civile e quello ecclesiastico venne cancellato con grande danno del vero significato del matrimonio cristiano come unione eterna ad immagine di Cristo e della Chiesa. Tuttavia, non era possibile alla Chiesa rinunziare alla santità dell’Eucaristia per cui il matrimonio ecclesiastico, che acquistava valore civile-formale, venne sempre più sentito come un atto distinto dalla celebrazione eucaristica. Per tale motivo, a cominciare dal secolo X, il rito specifico dell’incoronazione indipendente dalla liturgia domenicale entrò nell’uso comune.

La Chiesa istituendo il rito del matrimonio distinto dall’Eucaristia non perse subito la  consapevolezza del nesso tra l’unità matrimoniale <in una sola carne> ed il sacramento del corpo e del sangue di Cristo. Gli antichi testi, infatti, comprendono la comunione degli sposi, se sono degni, con i doni presantificati. Questa consuetudine rimase in uso nella Chiesa fino al secolo XV; se ne trova conferma sia nei formulari liturgici greci del secolo XIII, sia nei manoscritti slavi del secolo XV. Nei casi in cui gli sposi non erano <degni> di comunicarsi ai santi misteri, questi bevevano soltanto ad una coppa comune di vino benedetta dal sacerdote. La presente usanza è tuttora l’unica in vigore. La Chiesa, tuttavia, cosciente che l’Eucaristia è il vero <sigillo> del matrimonio, conserva traccie della sua antica forma eucaristica iniziando il rito dell’incoronazione con l’ekfonesi <sia benedetto il Regno…> come avviene nella liturgia.

Il vincolo matrimoniale, nel modo in cui è stato descritto, non solo rende possibile ma desiderabile un ritorno all’antica prassi e disciplina ecclesiastica. Pertanto l’Eucaristia deve di nuovo ritornare a conferire al matrimonio il suo genuino significato.

PROPOSTE  DI  RINNOVAMENTO

E –  FIDANZAMENTO

La chiesa greca, a differenza di quella latina, ha inteso celebrare progressivamente i momenti che portano l’uomo e la donna a quella forma stabile di vita a due che è il matrimonio; questa suddivisione non è priva di significato teologico, liturgico e pastorale.

È, infatti, compito del fidanzamento di verificare con il tempo la stabilità della scelta che costituisce una condizione indispensabile per il matrimonio. Appartiene, inoltre, alla sua sfera la funzione di assicurare alla futura coppia la consapevolezza e la responsabilità di non considerare il matrimonio semplicemente una bella usanza, un ornamento tradizionale del contratto civile, o addirittura una legalizzazione dei rapporti sessuali davanti alla società, ma una unione unica ed indivisibile.

Anticamente il periodo di tempo che intercorreva tra la cerimonia del fidanzamento e quella dell’incoronazione era di breve durata. Questo intervallo è stato eliminato quando alla benedizione degli sponsali non è stato più riconosciuta quella stabilità di relazione simile a quella del matrimonio.

Nel presente, la dilagante laicizzazione dello Stato, svincolata da interessi del genere, facilita la chiesa a ripristinare il rito secondo l’antica disciplina.

Nell’intento di conseguire tale risultato, gli sponsali dovrebbero svolgersi nel nartece della chiesa, oppure all’ingresso della medesima e a distanza di qualche mese dall’acolutìa dell’incoronazione. La cerimonia, a sua volta, non dovrebbe subire alcun cambiamento in quanto, oltre ad esprimere bene il significato del fidanzamento, è ridotta all’essenziale.

La celebrazione, dopo un inizio comune a tutti i sacramenti ed una litania arricchita da petizioni speciali per gli sposi, comprende due preghiere che si possono chiamare <orationes desponsationis>. La prima contiene un esplicito riferimento all’indissolubilità matrimoniale. Come tra Cristo e la sua Chiesa vi è una unione di amore indistruttibile, così lo deve essere per gli sposi. Nel medesimo tempo è importante per essi che sappiano occuparsi delle cose carnali e terrene con tale intento e moderazione da non separarsi da Cristo. La seconda intende evidenziare agli sposi che il patto tra Cristo e la sua Chiesa racchiude il mistero delle nozze, il quale diede la sua vita per lei, la strappò alla schiavitù del demonio, la purificò e la santificò con la sua grazia. La preghiera contiene anche un riferimento all’armonia che deve regnare nell’ambito del matrimonio; tale risultato è possibile se gli sposi sapranno liberare il loro amore da ogni forma di egoismo e di concupiscenza, e saranno in grado di motivarlo con Cristo, misurarlo su Cristo, confortarlo dalla grazia.

Dopo queste due orazioni, il rito del fidanzamento prosegue con la consegna dell’anello agli sposi da parte del sacerdote e lo scambio del medesimo dal paraninfo; per il resto della funzione bisogna osservare quanto prevede il rituale.

In questa cerimonia si incentra il significato del rito del fidanzamento; con l’accettazione dell’anello, infatti, gli sposi danno il loro consenso come marito e moglie. Inoltre, lo scambio in forma di croce, oltre ad indicare che la persona umana realizza la sessualità in forma bipolare, contiene anche un esplicito riferimento alle difficoltà della vita coniugale.

Pochi sono i matrimoni senza croci, ma se queste saranno portate per amore di Cristo, l’unione sarà ugualmente felice. Lo sposo non deve rifiutare le conflittualità che incontra nel matrimonio, allo stesso modo come Cristo, nella sua passione, non ha rifiutato la croce di fronte ad un popolo ingrato. Gli sposi hanno il compito di sacrificarsi per l’altro, di aiutarsi a vicenda per conseguire insieme la salvezza.

Il colore dell’anello non è privo di significato: dovrebbe essere d’oro per lo sposo e d’argento per la sposa.

L’anello d’oro ci riporta nel paradiso terrestre, al momento in cui le creature uscivano luminose e trasparenti dalle mano del Creatore come manifestazione della sua grandezza e bontà (Gen. 1,1-28). Nel libro di Giobbe, l’oro allude alla trascendenza di Dio (Gb. 22,24-25); nei testi sapienziali l’oro è simbolo della sapienza divina; nel libro del Siracide si paragonano i legami con la sapienza a un<abito d’oro filato>. Di conseguenza, per il discepolo disposto al accogliere la preziosità di questa fonte divina, le difficoltà matrimoniali non diventano <ceppi ai piedi>, ma si trasformano in un <giogo d’oro> (Sir. 6, 27-31).

Per la sposa l’anello è di color argento in quanto la dote che le veniva consegnata consisteva in monete d’argento; si trattava di una somma pagata dal pretendente per il trasferimento di tutela della donna dall’autorità dei genitori a quella del marito.

Dal secolo VII a.c. l’argento ha assunto la funzione di base monetaria, serviva come mezzo di scambio presso i regni assiro e babilonese e presso la civiltà greca.

Nel vecchio testamento uno dei modi usuali per acquisire la libertà avveniva mediante il pagamento di un tributo che consisteva in sicli d’argento.

La Chiesa non poteva sopportare che la presentazione dei doni nuziali <arrhae> da parte del fidanzato alla futura moglie venissero considerati come pegno della <donatio propter nuptias> in quanto la donna veniva ritenuta poco più di una proprietà negoziabile, per cui abolì questa consuetudine ed attribuì esclusivamente all’anello il segno di una volontà che acconsente alle nozze.

La preghiera che viene recitata durante lo scambio dell’anello, nel ricordare la funzione che esso ha avuto nell’antico e nuovo testamento, si propone di sottolineare la conferma del fidanzamento in vista del futuro matrimonio.

L’acolutìa va conclusa nel modo consueto, con la piccola litania ed il congedo.

F –  INCORONAZIONE

Nella chiesa primitiva la possibilità di trasformare l’unione dell’uomo e della donna in un dono eterno d’amore esigeva l’intervento della chiesa quando il matrimonio veniva contratto. Era richiesto l’assenso del Vescovo e l’accesso comune degli sposi all’Eucaristia per essere innestati al Corpo Mistico di Cristo. Questa nuova concezione rendeva il matrimonio cristiano irriducibile all’utilitarismo ebraico e al legalismo romano. Inoltre, per la sua ecclesialità, doveva svolgersi di domenica per dare l’opportunità ai fedeli di essere testimoni della realizzazione della sua sacramentalità e per non renderlo una devozione privata.

Nel secolo X, assistiamo ad un cambiamento: la benedizione sacerdotale era divenuta necessaria per la validità del matrimonio a seguito dei decreti imperiali associati alle norme ecclesiali. La conseguenza di questa nuova legislazione portò la Chiesa, paradossalmente, a benedire unioni che non approvava come le seconde nozze. L’unica cosa a cui la Chiesa non poteva rinunziare fu la santità dell’Eucaristia e per questo il matrimonio ecclesiastico fu sempre più sentito come un atto distinto dalla medesima: il ripristino si impone in quanto la Chiesa non possiede più il diritto giuridico di legalizzare il matrimonio.

Fino al 1800 il rituale della Chiesa bizantina non prevedeva la richiesta e lo scambio del consenso da parte degli sposi prima della cerimonia del fidanzamento oppure dell’incoronazione. Nella Chiesa greca la prima segnalazione circa l’interrogatorio che il sacerdote deve rivolgere agli sposi all’inizio del fidanzamento in fondo alla chiesa, se intendono volontariamente unirsi in matrimonio, la si riscontra in una lettera enciclica del S. Sinodo di Atene n. 850 del 4 aprile 1834. L’interrogatorio da farsi agli sposi sul libero consenso trova in seguito conferma nell’Euchologion  to  Mega, Roma 1873 e nel Mikron Euchologion 1968,90.

De Meester, nella sua pubblicazione <studi sui Sacramenti> (p. 277, Roma 1947), scrive che secondo le disposizioni del Concordato nelle Eparchie d’Italia il sacerdote all’inizio del fidanzamento va incontro agli sposi in fondo alla chiesa ove li interroga se volontariamente intendono unirsi in matrimonio e, ricevuto il consenso, in presenza di due testimoni, per tre volte traccia il segno di croce sul capo  dell’uomo e della donna e subito dopo li introduce nella chiesa dopo aver consegnato a ciascuno di essi un cero acceso. La presenza e l’intervento del sacerdote benedicente è stato sempre ritenuto nella Chiesa Orientale l’elemento costitutivo del matrimonio.

Il solenne ingresso in chiesa degli sposi va mantenuto non solo per il suo aspetto caratteristico e decorativo, ma anche per il significato che comporta il Salmo 127 che il sacerdote canta durante la processione. Si tratta di un salmo ascensionale. Il pellegrino che andava a Gerusalemme, cantando questo salmo portava nel cuore la sua famiglia e vedeva, nella benedizione che cercava presso Dio, la garanzia di quella gioia che tante volte aveva goduto nell’intimità della sua casa. Il pio Israelita portava a Dio non solo se stesso, ma anche i suoi cari e desiderava che su di essi si riversassero le grazie impetrate dal Signore.

Dopo questa cerimonia dovrebbe iniziare la liturgia domenicale preceduta dalla dossologia; la grande sinaptì andrebbe arricchita con le invocazioni relative agli sposi.

Al termine delle antifone, tenuto conto che le corone vengono poste prima dell’Apostolos e del Vangelo, la cerimonia dell’incoronazione dovrebbe iniziare subito dopo il <Trisaghion>, anche se altri vorrebbero inserirla dopo l’anfora e prima della comunione.

Delle tre preghiere di benedizione andrebbe letta solo la terza in quanto nei primi secoli della Chiesa si recitava solo una e questa si configura nella orazione indicata. Pur nella sua brevità, diverse sono le tematiche in essa contenute: con l’unione delle destre, il sacerdote affida gli sposi l’uno all’altro. Questa cerimonia trova riscontro nel libro di Tobia dove in proposito di legge: <presa la mano destra della sua figlia e postala nella mano destra di Tobia disse: Il Dio d’Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, sia con voi, Lui vi unisca ed adempia in voi la sua benedizione> (Tobia VII, 15). Nella preghiera in esame si fa anche riferimento alla creazione della donna non solo come semplice accoppiamento di sessi, ma anche come comunione di persone il cui amore coniugale non si esaurisce all’interno della coppia, in quanto, con la mutua donazione, i coniugi diventano compartecipi dell’attività creativa di Dio. In questa preghiera vi è un richiamo anche alla virtù morale, ordinata a regolare la sessualità secondo il fine voluto da Dio e dalla natura. Si tratta della castità la quale non significa rinunzia, ma esercizio nel rispetto della finalità procreativa-unitiva.

La presente funzione prevede l’imposizione delle corone sopra la testa dello sposo e della sposa, che deve avvenire secondo la formula prescritta. Subito dopo il sacerdote benedice gli sposi ripetendo tre volte il versetto del Salmo 8,6,<Signore, nostro Dio, incoronali di gloria e di onore>.

Questa invocazione rievoca la creazione dell’uomo ad immagine e similitudine di Dio, che lo ha reso di poco inferiore a se stesso. Nell’uomo il Signore ha raccolto e sintetizzato la gloria e lo splendore dell’universo, lo ha coronato di gloria e di onore. Per mezzo della sua intelligenza l’uomo è chiamato a collaborare alla stessa opera creatrice di Dio e a partecipare al suo dominio su tutto il creato. Per mezzo dell’uomo le cose parlano al loro creatore; egli è l’interprete e il sacerdote dell’universo presso Dio. Nell’attuale contesto, tuttavia, questa cerimonia costituisce un ornamento, come nella Chiesa primitiva, senza alcuna implicazione di un ruolo centrale che realizzi la consacrazione dell’unione nuziale.

Terminata questa cerimonia, dovrebbe riprendere la liturgia con i brani dell’Apostolos e del Vangelo che potrebbero essere quelli contemplati nel rito, senza escludere quelli previsti dal giorno della domenica. Altre eliminazioni non ci dovrebbero essere fino alla comunione, alla quale gli sposi dovranno accostarsi per il nesso interiore tra l’unità matrimoniale <in una sola carne> ed il sacramento del corpo e del sangue di Cristo, mediante il quale gli sposi trasfigurano il loro amore in una eterna unione d’amore in Cristo, diventando membri del suo corpo mistico che è la Chiesa.

L’impedimento di <mista religio> prevista dal can. 10 del Concilio di Laodicea, dal can. 21 di quello di Cartagine e dal can. 72 del Trullano, consiste proprio in questo stridente contrasto che i coniugi realizzano <in una sola carne> e la mancanza di quella piena unità in Cristo a sua immagine con la Chiesa. Nell’unione fisica i coniugi si trovano integralmente uniti tra di loro, mentre in rapporto a Cristo la loro unione è superficiale ed incompleta. Per il significato che comporta, la comunione eucaristica dovrebbe nuovamente essere ritenuta il <sigillo> del matrimonio; una diversa concezione porta alla desacramentalizzazione delle nozze.

La partecipazione alla comunione esclude, di conseguenza, la cerimonia della coppa comune di vino che il sacerdote, dopo averlo benedetto, dovrebbe porgere a bere per tre volte allo sposo e alla sposa.

Dopo la comunione, la liturgia dovrebbe seguire il suo iter fino alla preghiera che il sacerdote recita fuori del vima e davanti all’icona del Redentore. Al termine di questa orazione va inserito <il girotondo> che nel rito bizantino non è espressione di gioia tipicamente matrimoniale in quanto si trova anche nelle chirotonie maggiori. Esso sta’ a simboleggiare che i neo-sposi intendono considerare la loro vita familiare come un muoversi verso Cristo.  Il triplice giro dovrebbe avvenire, secondo la formula prescritta, con i tre canti: il primo in onore della madre di Dio; il secondo dei Santi Martiri; il terzo in onore di Gesù Cristo.

Il cerimoniale prevede, subito dopo, la deposizione delle corone. Un tempo gli sposi le portavano per otto giorni e la loro rimozione significava che potevano avere rapporti matrimoniali.

La Chiesa, nella prescrizione di questa consuetudine, si ispirò a Tobia e Sara (Tob. VIII, 4) i quali, dopo il matrimonio, per alcuni giorni osservarono la continenza per dedicarsi alla preghiera. Si trattava, tuttavia, di un consiglio e non di una norma obbligatoria che, con il passare del tempo, andò in disuso.

La cerimonia dovrebbe proseguire con le ultime due preghiere, dopo di che si fanno gli auguri agli sposi ed una volta che questi si sono abbracciati, amici e parenti dovrebbero avvicinarsi per porgere le loro felicitazioni. Al termine, il sacerdote congeda l’assemblea con l’Apolisis della domenica durante la quale, come avviene nelle grandi festività, si dovrebbe inserire un riferimento contemplato nella preghiera di licenziamento del rito dell’incoronazione.

EPILOGO:

LE NOZZE DI CRISTO CON LA SUA CHIESA

IMMAGINE ARCHETIPA DEL MATRIMONIO

L’esposizione fin qui elaborata va completata con una riflessione di rilevante importanza. L’unione nuziale di Cristo con sua Chiesa resta il prototipo da cui deriva quaggiù ogni unità di vita e di amore, come pure manifesta ciò che nel matrimonio è appena abbozzato. Come ogni uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, così ogni unione coniugale è concepita da Dio ad immagine di Cristo con la sua Chiesa. È secondo questa unione archetipa che Dio ha organizzato tutte le comunità terrene d’amore.

L’unione tra Cristo e la Sua Chiesa costituisce anche l’immagine preesistente della coppia umana in quanto Adamo è creato ad immagine di Cristo ed Eva ad immagine della Chiesa. Clemente Alessandrino scrive in proposito <Dio ha creato l’uomo: uomo e donna, l’uomo è Cristo, la donna è la Chiesa> (2 Cor. XIV)

Per i Padri anche la nascita della Chiesa dal costato aperto di Cristo simboleggia l’immagine preesistente a cui si è ispirato l’autore sacro nella descrizione della creazione di Eva. La Genesi formula l’essenziale: <con la costola tolta all’uomo, Dio formò la donna e la condusse ad Adamo> (Gen. 2,22). La Chiesa è uscita dal fianco di Cristo, Eva da quello di Adamo.

Dell’assoluta perfezione che esiste nell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, S. Paolo, nelle lettere agli Efesini (Ef. 5,21,32), non solo descrive la norma secondo la quale gli sposi devono regolare quaggiù le loro relazioni, ma insegna anche che l’unità coniugale, divenuta cristiana, costituisce l’ideale supremo, umano ed insieme divino, di ogni matrimonio; ciò pone in evidenza la vera essenza del medesimo che è quella di realizzare un amore divino e una vita divina nell’unione di due esseri umani.

Secondo questa dimensione, la Chiesa non dirige le sue attenzioni soltanto alla prosperità della città terrena ed alla comunità cristiana di cui gli sposi fanno parte o alla posterità nella quale si prolunga la loro vita, ma al di sopra della famiglia terrena emerge quella celeste riunita attorno al Padre comune; al di sopra della vita temporale emerge la visione della vita eterna verso la quale devono confluire tutte le famiglie della terra. Secondo la presente dinamica, ogni famiglia che vive nella luce e nel timore di Dio è destinata, un giorno, a ritrovarsi nella famiglia della SS. Trinità di cui quaggiù è l’immagine vivente. Questa concezione porta a ritenere che le realtà terrene sono modellate secondo quelle celesti e di conseguenza che le realtà terrene sono destinate a trasfigurarsi e a ritrovarsi nei loro esemplari sovrumani; è nelle realtà trascendentali che il reale trova il suo compimento voluto da Dio; è in esse che trova la sua dignità e la sua consacrazione.  In Matteo (22, 30) leggiamo: <alla resurrezione, non si prende né moglie e né marito, ma si è come angeli di Dio nel cielo>.

Secondo questa citazione, nel momento in cui il matrimonio secondo il disegno di Dio ha esaurito la sua funzione, non avendo consistenza propria, è destinato a ritrovarsi nelle realtà celesti di cui quaggiù è l’immagine. Il matrimonio nella concezione divina, rappresenta il tempo della rivelazione ultima, liberata da tutte le profanazioni della storia.

Papàs  Antonio Magnocavallo