“Il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi perché ciò che è meraviglioso e grandioso  s’accompagna sempre a un senso di smarrimento  e prevale su ciò che è solo convincente o gradevole, dato che la persuasione, in genere, è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.”(1,4 Anonimo del Sublime)

Così l’illustre  Pseudo-Longino, autore de ”Il Sublime”, dissertazione d’estetica, presenta il Sublime, quasi all’inizio del suo discorso in uno dei passi più importanti per la comprensione dell’opera: parole-chiave introdotte sin dal principio sono l’estasi  e il grandioso.

Estasi significa propriamente <essere fuori di sé>, perdendo il controllo della propria mente e del proprio comportamento: una condizione mentale di panismo con ciò che si ode o si osserva, che caratterizza sia l’artista, nel momento dell’ispirazione, sia il pubblico che s’abbandona alla fascinazione delle  sue creazioni..

Risale all’antichità la convinzione che l’ispirazione poetica o artistica provenga da una forma di follia divina (Democrito  riteneva, infatti, che” è veramente bello solo ciò che un poeta scrive sotto la spinta dell’entusiasmo o di una divina ispirazione”).

 L’anonimo condivide l’idea di Platone secondo cui il poeta, ma, in generale, l’artista,  compone in uno stato di trance poiché è posseduto da un dio e in questa condizione agisce in stato di ipnosi ed è capace di generare irrazionalmente nel pubblico la stessa emozione che egli prova: anche gli altri, infatti, ispirati dal poeta-artista, perdono il controllo della mente, si abbandonano alle irresistibili emozioni destatesi nell’animo e si lasciano trasportare in una dimensione a-logica e a-razionale di alienazione mentale ove si identificano totalmente con il processo creativo dell’artista.

L’anonimo giustifica la sensazione di familiarità dello spettatore davanti ad un capolavoro, affermando che l’anima umana possiede quasi per natura la capacità di esaltarsi davanti alla vera sublimità e si riempie di gioia e di orgoglio come se avesse creato lei stessa ciò che ha contemplato o udito.

Il sublime è sovente letto come un trattato di estetica, ma non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “bello”; concetto, questo, dal quale, anzi, l’anonimo autore si guarda con tale circospezione che l’idea non compare neppure fuggevolmente all’interno del suo testo .

Il sublime invece, va cercato in ciò che è sconvolgente e pertanto provoca sbigottimento, sorpresa, persino spavento.

Questo punto del sublime costituì uno dei temi centrali della estetica europea sin dal 1700, in primo luogo nelle opere di Burke ( “Ricerca filosofica sulle origini delle idee del bello e dl sublime”), per il quale il sublime non nasce dal piacere della contemplazione di una forma bella, ma ha la sua radice nei sentimenti di inquietudine e di orrore suscitati dalla dismisura , dalla percezione dell’infinito. Quindi, da quel senso misto di sgomento e di piacere, determinato dall’assolutamente grande e da ciò che suscita nell’uomo il senso della sua fragilità.

Pubblicata nel 1757 ed ampliata nel 1759, l’“ Inchiesta sul bello ed il sublime” di Edmund Burke costituisce il punto di arrivo della riflessione primo-settecentesca e insieme il punto di partenza di una complessa trama teorica e culturale che si dipana fino ancora ai nostri giorni.

Burke definisce tutto ciò che può destare idea di dolore e di pericolo (ovvero tutto ciò che è, in un certo senso, terribile o che agisce in modo analogo al terrore ) una fonte del sublime; è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire << Dico l’emozione più forte perché sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere>>. Burke ritiene il terrore e il terribile quali elementi in grado di provocare piacere solo quando l’osservatore non si sente direttamente minacciato:<<quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto terribili, ma considerati ad una certa distanza possono essere e sono dilettevoli>>.

Letta e commentata, l’Inchiesta di Burke innesta nel pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant ulteriori sviluppi..

Nella “Critica del giudizio” (1790), Kant distingue il sublime dal bello perché genera, come esso, un piacere puro e disinteressato, ma attiene a ciò che è informe, senza limite. Mentre il bello, pertanto, provoca solo piacere, il sublime,invece – poiché è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una forte effusione delle forze vitali – presuppone un momento di dispiacere, cioè, un piacere negativo che attrae e respinge allo stesso tempo.

Per Kant il sentimento del sublime viene provocato precisamente da ciò che  per un uomo comune è semplicemente terribile, da  quelle manifestazioni dell’impero devastatore della natura  e della sua grande potenza ,di fronte a cui  l’uomo avvertirebbe l’annullamento di sé, il disagio,l’affanno,il pericolo. Kant stesso dichiara”  La raffigurazione miltoniana del regno infernale, la visione di un monte,  le cui cime nevose si elevano sopra le nubi, o di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, o di una tempesta che infuria desta  piacere ma frammisto al terrore” (Critica del gusto).

Per comprenderne il senso, occorre rifarsi alla distinzione Kantiana tra sublime matematico e sublime dinamico.

Il primo nasce dallo squilibrio tra immaginazione e ragione, dalla reazione alla contemplazione di ciò che è assolutamente grande ( la volta celeste); l’immaginazione, rispetto alla grandezza infinita della natura, all’assolutamente grande, “tende a proseguire all’infinito”, senza mai poter esaurire la grandezza , senza mai poterla comprendere nella sua totalità.

Il secondo,diversamente, promana dalla visione della potenza della natura che atterrisce lo    spettatore, lo rende debole, quasi l’umilia ( un terremoto, un uragano, una tempesta sull’oceano), da cui però può nascere un’opposta volontà di potenza illimitata dello stesso soggetto poc’anzi annichilito, la coscienza della sua superiorità sul piano morale. Se infatti come esseri della natura siamo l’anello debole, fragile e inadeguato, troviamo tuttavia in noi “ la facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura e una superiorità che abbiamo su di essa”: non è sublime la natura con la sua potenza, ma “l’animo che può sentire la sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura stessa”. In questa potenza illimitata, espressa dalla natura umana sul piano spirituale, Kant riconosce la piena autonomia del soggetto e il primato della ragione come facoltà del soprasensibile.

Il romantico poeta Shiller dichiarò che” tutto ciò che è nascosto ,misterioso contribuisce al terribile ed è quindi capace di sublime” .

Tale ultima concezione ha profondamente influenzato l’arte romantica ottocentesca i cui canoni estetici appaiono profondamente modificati:Turner , Friedrick esaltano la capacità dell’artista di esprime  nei propri soggetti la vastità della natura, la sua forza  “terribile” e oscura,le emozioni di  panico sublime  suscitato dalla sua grandezza.

La pittura di Friedrick esprime in particolare un senso spettacolare e grandioso della natura con insoliti effetti di luci e colori. L’elemento che contraddistingue le sue opere è l’intensa espressività psicologica, unita al simbolismo.

L’infinito, i rapporti dell’io con la Natura sono evocati attraverso un profondo sentimento religioso; le sue tele sono sempre pervase dalla meditazione sull’arte e sul mondo.

Di fronte a paesaggi infiniti, i personaggi sono visti di schiena ,spesso silhouette che si stagliano verso il cielo mentre contemplano la Natura, simbolo di grandezza divina.

L’estetica romantica influenzò non solo il campo prettamente artistico bensì anche quello letterario: in Italia ad esempio Giacomo Leopardi , nonostante si fosse sempre tenuto a distanza dalle istanza romantiche, tuttavia  introiettò, probabilmente inconsapevolmente, il sentimento del sublime romantico e lo espose  nelle sue prime poesie definite ” Idilli”, ovvero brevi componimenti in endecasillabi sciolti che interpretano lo svolgersi di sentimenti,di pensieri e di ricordi interni all’io poetico messo in raffronto con il mondo esterno (la notte, la luna, l’universo).

Leopardi dà soprattutto voce al “piacere dell’immaginazione” attraverso  la ricerca di un’espressività  polisemia, capace di rendere le percezioni più vaghe e inafferrabili, quel senso di dolce indeterminatezza che soddisfa appunto l’istanza edonistica e irrazionale dell’uomo.

Con la  poesia “Infinito”, Leopardi rievoca tramite il ricordo frammenti dell’esperienza interiore dell’io, precisamente l’esperienza della creazione mentale dell’infinito e del viaggio interiore-sprofondamento e naufragio- nell’infinito.

“Ma sedendo e mirando, interminati

 spazi di là da quella e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo;  ove per poco

 il cor non si spaura”

In questi versi Leopardi dichiara l’inclinazione della sua immaginazione a “proseguire all’infinito”senza mai poter esaurire, comprendere totalmente la grandezza della Natura.

Lo squilibrio inevitabile che si crea tra l’irrazionalità dell’immaginazione e la “razionalità” della ragione provoca quello che kantianamente sarebbe definito sublime matematico:

“e mi sovvien l’eterno….

Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

e il naufragar m’è dolce in questo mare

 L’io “naufraga” dolcemente e passivamente nel mare, metafora  dell’immensità sovrumana della Natura , s’abbandona così  a questa mistica fusione con la Natura(“io nel pensier di sovrumani pensieri mi fingo”) di cui può contemplare una minima parte e nei confronti della quale prova un’indescrivibile sentimento di commozione e di timore, di attrazione e  contemporaneamente di repulsione(“ove per poco il cor non si spaura”

Nella poesia “Canto di un pastore errante in Asia“, Leopardi esplora un grande notturno animato dall’ estetica del patetico, vale a dire ciò che attiene all’intima espressione  dei sentimenti e degli stati d’animo.

Soggetto del canto è un pastore errante asiatico : la scelta di porre questa figura come protagonista del componimento lirico si spiega considerando il fatto che Leopardi rimase incantato dalla lettura di un passo del Voyage d’Orenbourg, memoriale scritto dal barone russo Meyendoff , in cui veniva menzionata l’usanza di parecchi Kirghisi, nomadi asiatici, di” passare la notte seduti su una pietra a guardare la luna, e ad improvvisare parole abbastanza tristi su arie che non lo sono meno”.

Alludendo a quest’usanza nomade, Leopardi dunque presenta  il pastore asiatico come  incarnazione di una forma di saggezza primitiva, la più primitiva possibile, al punto da poter instaurare un dialogo solitario con la luna,la quale, rischiarando l’incantevole e sereno volto del cielo, vela e rivela, accarezza il mistero delle cose e ne lascia intatta la dolcezza immaginata  e sperata dal soggetto.

 Cosi’ il paesaggio notturno, che  si schiude agli spazi sconfinati, a un cielo che rispecchia l’ampiezza e il vuoto del deserto su cui si estende, proietta il pastore in una dimensione ideale, immaginaria, irrazionale in cui sono messe in gioco forze che superano la dimensione umana e si aprono sull’universo sconfinato,con la sua paurosa e inebriante energia.

“Che fai tu,luna,in ciel? Dimmi ,che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera , e vai,

contemplando i deserti,  indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandar i sempiterni calli?”

Ora,questa condizione primitiva non è sorgente di immaginazione benefica, ma corrisponde a una condizione di dubbio, di perplessità (che alimenta l’interrogazione lirica) e insieme di certezza negativa riguardo alla propria esperienza della vita :

“Vecchiarel bianco,infermo,

 mezzo vestito e scalzo

con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

per sassi acuti,

varca torrenti e stagni

cade, risorge ,e più e più s’affretta,

senza poso o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin, ch’arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu volto:

abisso orrido, immenso,

ov’ei precipitando il tutto obblia.

Vergine luna , tale

È la vita mortale”

All’immortalità della luna,  il pastore contrappone tragicamente la mortalità dell’uomo la cui vita è piena di dolore, sofferenza  pericolo sin dalla nascita:

“Nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

il prender a consolar dell’esser nato”

La luna costituisce per il pastore l’unica fonte di consolazione in quanto nonostante sia eterna e viva pacificamente nella tranquillità della notte, tuttavia condivide e comprende la solitudine umana, perché definita eterna e solitaria viaggiatrice:

“ pur tu, solinga, eterna peregrina ,

che sì penosa sei   “

Ma soprattutto dall’alto dei cieli è, in prima persona,  eterna testimone della vita “inutile” di uomini che ininterrottamente si susseguono :

“tu forse intendi,

questo viver terreno,

il  patir nostro , il sospirar, che sia ;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante ,

e perir della terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu comprendi certo

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo”.

Leopardi con questo canto raggiunge il culmine della sublimità stilistica e contenutistica, valorizzando straordinariamente la dimensione del sovrumano, vista come fonte di un piacere superiore che passa per una fase di terrore.

Delighful horror è la definizione data da Burke del  sublime e che in questo caso veste perfettamente la descrizione leopardiana di una notte che costituisce il miglior sfondo su cui riflettere  sui  segreti dolci  e  dolorosi dell’esistenza.

Nella sua dissertazione d’estetica, L’anonimo del Sublime, primo e probabilmente unico uomo di cultura interessatosi a fornire una dettagliata  descrizione e analisi del Sublime in tutte le sue manifestazioni nonché dei suoi imprevedibili effetti, cita  frequentemente il tragediografo Euripide come uno dei massimi esperti nell’arte del “sublimare”.

La MEDEA euripidea è universalmente riconosciuta come l’incarnazione del Sublime: Edmund  Burke riteneva che fonte del Sublime fosse tutto ciò che era in grado di destare dolore e pericolo ovvero tutto ciò che agisce in modo analogo al terrore.

Il tragediografo greco conduce una profonda e dettagliata  analisi introspettiva del personaggio al fine di mettere in luce le forze irrazionali – dionisiache che animano  lo spirito umano, analoghe, per intensità ed essenza, alle forze della Natura .

Sotto tale profilo, si crea una sorta di panismo dannunziano tra la Natura e la protagonista, la cui indole passionale , imprevedibile e indomita, sfugge alle regole del comune sentire  per inserirsi nel più ampio contesto di quei fenomeni naturali devastanti che in alcun modo possono essere circoscritti e tanto meno limitati nel loro dipanarsi, e il cui unico fine sembra essere quello di sconvolgere e atterrire il mondo.

L’occasionale molla propulsiva delle azioni e reazioni di Medea è la follia amorosa a causa della quale giunge ad abbandonare suo padre, ad uccidere il fratello, a tradire la sua patria sino a ad uccidere personalmente i propri figli, senza che nulla e nessuno possa arrestare il corso sfrenato degli eventi.

Sin dai primi versi della tragedia Medea è presentata dalla nutrice come una donna che presa nell’animo dall’amore che l’incatena a Giasone, si lascia proiettare in una dimensione a-logica e a-razionale in cui il Tumòs prende il sopravvento sulla ragione e guida l’agire della donna verso un mondo parallelo fatto di forze istintive e ancestrali in cui il nomos e la pietas vengono totalmente annullati. Dal momento in cui Medea incontra Giasone il suo animo si tormenta, riconosce il completo annullamento cui è soggetta la propria persona, l’irrazionalità subentrata alla propria razionalità che, prima di allora, aveva invece sempre improntato il suo vivere quotidiano. Ciò nonostante, alla creatura maschile da cui consapevolmente sa dipendere ogni suo affanno, Medea si sente fatalmente avvinta. In tutti i monologhi  o dialoghi che il tragediografo  elabora, viene citata chiaramente come  guida della donna nel suo agire, la passione nella sua triplice forma di desiderio, gelosia e vendetta.

Questi sentimenti , che si susseguono  fatalmente(ognuno di essi è l’effetto del precedente e la causa del successivo) sono costantemente accompagnati  da dolore, sofferenze, da pene per un amore non corrisposto ingrato, perduto.

Nel descrivere dettagliatamente Medea e la follia amorosa di cui è vittima, Euripide sembra quasi alludere alla poetessa greca Saffo, autrice di poesie elegiache ruotanti attorno al tema dell’amore e delle sue devastanti conseguenze, tra cui la gelosia:

Simile agli dei mi pare

L’uomo che ti siede in faccia

E ti ode mentre parli

Così dolcemente

E ridi amabile: il cuore

Mi palpita nel petto.

Appena ti rivolgo gli occhi

La voce mi vien meno

E la lingua si spezza e improvviso

Un sottile fuoco mi percorre:

gli occhi non vedono più nulla

e ronzano le orecchie,

mi cola un sudore di ghiaccio, un tremito

mi scuote tutta, e più verde dell’erba

divento: sembro vicina alla morte….

Ma bisogna tollerare tutto

Connettendo  tra loro i momenti più intensi e acuti della gelosia, della bramosia di possedere l’oggetto del proprio desiderio, la poetessa sublimemente desta nell’animo dei lettori meraviglia e terrore: nello stesso tempo infatti ella ripercorre l’anima, il corpo, le orecchie, la lingua, gli occhi, la pelle, come se fossero cose a lei estranee, e disperse: e passando da un opposto all’altro gela, brucia, è fuori di sé, ragiona , è sconvolta dal timore e poco manca che muoia, tanto che sembra provare non una sola ma un groviglio di passioni.

Dietro le quinte : Cause della nascita del Romanticismo

“La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile. Prima se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime righe, è essa stessa il personaggio principale. Oramai non ci sono più protagonisti : c’è solo un coro”.

Queste frasi, tratte dal celebre libro “La ribellione delle masse” dello spagnolo Josè Ortega y Gasset, sono state scritte nel 1930, ma il fenomeno che v’è descritto aveva radici molto lontane, precisamente all’inizio dell’800 con il fenomeno dell’industrializzazione.

Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese ad accrescere ad accelerare i processi di meccanizzazione produttiva( Catena di montaggio e Taylorismo) disinteressandosi delle ostilità degli operai atti ad un lavoro ripetitivo  e spersonalizzato e spossessati di qualsiasi autonomia oltre che di qualsiasi orgoglio professionale.

È in questa dimensione sociale, dopo che la Rivoluzione Francese aveva visto il “popolo” entrare per la prima volta da protagonista sulla scena, che si diffonde il concetto di “massa” intesa come moltitudine indifferenziata al suo interno, come aggregato omogeneo in cui i singoli tendono a scomparire  rispetto al gruppo e  ad assumere. un carattere anonimo e impersonale.

In questo nuovo contesto industriale e borghese si verificarono gravi problemi tra la massa e il singolo il quale non volendo o non riuscendo ad omologarsi con la collettività, entrava  spesso in conflitto con quest’ultima.

Progressivamente aveva luogo una sempre più profonda e insanabile scissione  tra  la società e l’individuo .Questi individui si identificavano quasi sempre con gli artisti alcuni dei quali cercavano, loro malgrado, di venire a patti con la nuova situazione storico-sociale, altri si distaccavano dalla nuova società per poterla analizzare con più lucidità, ponendo principalmente l’attenzione sugli effetti provocati dall’industrializzazione. Le riflessioni che ne conseguivano venivano descritte realisticamente con toni critici e pessimistici negli  scritti da uomini come Wordsworth, Blake. Moltissimi degli  artisti ottocenteschi s’affermarono come artisti romantici, ovvero come artisti che miravano a fuggire dalla realtà circostante, ad avvolgersi attorno ad un velo di illusioni che alleviasse loro lo scontento. Emerge il concetto di Genio, inteso come esaltazione dell’unicità, della libertà e dell’infinita creatività dell’individuo,che s’esplicita negli slanci drammatici degli eroi romantici, spesso avulsi dalla regolarità del contesto sociale e mossi da profonde e illimitate idealità in contrasto con i ridotti confini ideologici del proprio tempo.

Attraverso l’arte e la letteratura, considerati gli unici strumenti, insieme all’immaginazione , capaci di rendere migliore la realtà (Keats), alcuni romantici tendevano a ricreare un rapporto autentico con la Natura, anch’essa vittima del processo industriale (pensiamo ai poeti romantici della prima generazione come Coleridge, Leopardi), altri invece, disincantati, disillusi, consapevoli dell’impossibilità del realizzarsi di un simile progetto, si chiudono completamente in una dimensione individuale in cui  riflettono sul proprio essere (talvolta coincidente con quello della Natura) oppure progettano un atteggiamento volto ad esaltare la ribellione contro la piatta normalità, le leggi morali(G. Gordon Byron).

Il Romanticismo aveva comunque alla sua base la creazione artistica vista come manifestazione di uno stato d’animo, di un’individualità, di una vitalità svincolate dalla rigida osservanza dei canoni tradizionali.

Presentando uno spirito anticonformista in quanto fantastico, magico e irrazionale ,ma, per questo suggestivo ed affascinante, il Romanticismo è dunque lo sconvolgimento di una dottrina, di un codice: esso  è la denuncia di una crisi, di una rottura.

Federica Folino