In San Giuseppe Moscati il filo della misericordia di Bakhita, di Natuzza, di Padre Pio
Gesù Nuovo. Napoli. Chiesa di San Giuseppe Moscati. È una preghiera costante per chi ha dedicato un libro al medico santo. Il tempo sembra non mutare nulla ma forse ci illudiamo di mutarlo noi. L’illusione potrebbe raggiungere il delirio ma c’è la fede in Cristo che ci restituisce il valore della pietà, dell’attesa e della speranza. San Giuseppe Moscati è una costante e mi pone sempre nella prospettiva dell’attesa. La scienza, la filosofia, il sacro. E per chi cerca di andare anche oltre il sentimento della contemplazione resta sempre la saggezza e la grande misericordia.
Ricordo spesso una frase di Santa Giuseppina Bakhita: <Sono stanca perché ho due valigie da portare, tutt’e due pesanti. Una è mia, piena di debiti; l’altra è piena di meriti di Gesù. Appena sarò sulla porta del Paradiso, coprirò i miei debiti con i meriti della Madonna. Poi aprirò l’altra valigia e dirò: ‘Eterno Padre, ora giudicate per quello che vedete’>. E spesso pensando a San Giuseppe Moscati mi giungono le parole di Bakhita..
Nella spiritualità del mistero cammina la religiosità che ha i suoi dubbi e le sue verità. Il mistico non ha certezze. Cerca la verità. Chiede, anzi, alla verità di farsi ascoltare soprattutto nei tempi dell’inquieto vivere come armonia e tremore (Kierkegaard) sia come tragico sentire la vita (Unamuno). La religiosità è dentro la filosofia. Agostino ha precorso i tempi della nostalgia dell’uomo ma ha anche recuperato il dimenticato.
Il mistico e lo “sciamano”. Sono due figure che interiorizzano il sentire, l’ascoltare, il donare. La religiosità dei popoli che è fatta di antropologia ha le sue memorie e i suoi radicamenti. Dal Tibet alla Mecca, da Gerusalemme a Roma. Ma nella profondità di questo “esercizio” spirituale mi ritorna la figura carismatica di San Giuseppe Moscati.
Perché Giuseppe Moscati? Non è perché ho scritto diverse pagine su questo uomo santo, non è perché il destino (e uso un concetto poco cristiano) lo intreccia ad una data fondamentale (1927) che è la cifra, in termini alchemici, per me, quasi “cabalistica”, non è perché il mio maestro di letteratura lo ha cucito sulla mia pelle e tra gli incavi del mio cuore. Perché, forse, il suo sguardo, nel suo sguardo, mi porta alla serenità contemplante dell’accettazione e ella profezia che è oltre la speranza.
In Moscati profezia e speranza sono un fraseggio dell’anima. Un uomo che ha la capacità di assentarsi dalla scienza (perché va oltre gli illuminismi e il post illuminismo) pur praticandola offrendosi al dono della fede, come mistero e non teologia, è già dentro il mistico che lega il cristiano non al mondo ebraico ma alla contemplazione della preghiera coranica. Nelle sue parole il dato biblico è un incontrare costante con la visione gibriana del “Corano”.
Moscati è un Santo nel nostro tempo e mostrarlo spesso con il camice bianco, nelle “icone” tradizionali, è la testimonianza di una fisicità quotidiana che si perde comunque nel senso dello sguardo. E non ha bisogno dello specchio. Il Santo che non proviene dal mondo ecclesiale (San Paolo e Agostino sono l’incipit di un tracciato nel quale la vita vissuta non si perde ma si trasfigura) è l’umanità della preghiera che non si impone ma che diventa orizzonte sacro della preghiera.
Il Cristiano e l’Islam, nella cultura laica,sono nella santità del dialogo della vicinanza. Ciò che uccide il mistero è, a volte, la teologia. Il sacro è il respiro dell’anima. È il sentire e non l’ascoltare. Il sacro è l’emozione nel sentire. La teologia è l’ascoltare non trasgredendo le regole. Il mistero non ha regole. Perché il mistico vive nella ricerca della verità convivendo con il dubbio non della fede in Dio ma in quel dubbio pascaliano (che è deserto e risveglio) ripreso da Mauriac in tempo di crolli esistenziali della coscienza.
San Giuseppe Moscati è sì un santo popolare, ma questo concetto di vivere il sentimento del “popolare” lo pone non nella dimensione della ragione. Anzi lo allontana dalla ragione.
D’altronde il suo colloquiare con Bartolo Longo, e Pompei è una testimonianza, resta una testimonianza ontologica in quella metafisica fatta di azioni come è la storia di Natuzza Evolo (della quale ho avuto modo già di parlare). A volte è come se la fede e il mistero si svolgessero fuori dalle Chiese. Io che non vivo la Chiesa come teologia e come Regola cerco di leggere in Moscati il Santo del popolare che lega il travaglio di Padre Pio e il conflitto subìto da Natuzza.
Il Santo è oltre la Chiesa istituzione pur restando nella Chiesa misericordia. La Napoli di San Giuseppe Moscati non è la Napoli della Chiesa istituzione, ma piuttosto la Napoli della santità popolare che non si pone come uomo di “teologali” atti ma come mistero, fede e carità. La sua azione è una costante misericordia. Se si può tentare un confronto, oggi, con Natuzza è che Moscati fa della sua fede un esercizio nelle azioni mentre Natuzza è la spiritualità che si fa profezia.
Entrambi vivono dentro una antropologia dell’umanesimo popolare che ha come punto di riferimento “nel nome di Cristo in Dio”, insegnamento paolino fondamentale. Ma non c’è dubbio che Moscati vede nella chiesa il punto di riferimento alto. Natuzza, invece, pur nel suo sentiero mistico, è allontanata dalla chiesa istituzione e subisce le mortificazioni e le ferite nel sacrificio che ha subito Padre Pio con una differenza di fondo. Natuzza è una laica. Padre Pio no. Moscati è l’equilibrio nella santità raggiunta.
Diceva Bakhita: <Guardate e vedete quanto misteriose sono le vie della Provvidenza di Dio e quando grande è la Sua misericordia”. Quella misericordia nelle azioni e nelle parole di Moscati. Quella misericordia negli angeli di Natuzza. Quella misericordia nella grazia di Padre Pio. In fondo in Moscati c’è lo stesso filo che lega Bakhita alla sofferenza del suo popolo. Una sofferenza che si risolve nella Provvidenza.
Pierfranco Bruni