La chiesa di San Michele in Monte Laureto a Putignano. Un santuario medievale e un miracolo moderno

Il santuario di San Michele in Monte Laureto sorge su un’altura boscosa nei pressi della strada provinciale che collega la città di Putignano (Bari) con la vicina Noci. Il sito, recentemente inserito tra le tappe delle Vie Francigene del Sud, già nel Medioevo era meta di pellegrinaggio, essendo frequentato dai fedeli che intraprendevano il proprio cammino spirituale, avente come tappa principale Monte Sant’Angelo. Il luogo di culto putignanese, difatti, condivide numerose peculiarità fisiche e devozionali con quello garganico: queste sono lo stillicidio dell’acqua e l’insediamento in altura del sito, l’impronta impressa sulla roccia dal piede di san Michele, l’antica presenza di un culto pagano (soppiantato, successivamente, da quello per l’Arcangelo), l’esistenza di una leggenda avente come protagonista un animale (un toro nel caso del santuario garganico e una pecora per Putignano), nonché la duplice festività che si celebra nei giorni dell’8 maggio e del 29 settembre.

Stando ad alcune testimonianze (ormai ampiamente confutate), datate tra la fine del XVII e il XVIII secolo, il luogo di culto in esame sarebbe stato fondato intorno al 591 dal generale Tulliano, fedelissimo del papa Gregorio Magno, per volontà dei genitori di quest’ultimo. Tali fonti riportano, inoltre, la notizia secondo cui il sito micaelico putignanese sarebbe sorto su un antico luogo di culto pagano, intitolato al dio Apollo, e che, in qualità di grancia della vicina abbazia del Barsento, sarebbe stato affidato ai monaci dell’ordine di sant’Equizio.

Queste informazioni, tuttavia, non possono in alcun modo essere comprovate: il più antico documento in cui è citata la chiesa in rupe di San Michele in Monte Laureto è datato al 1098 e riguarda la concessione, da parte di Goffredo, conte di Conversano, di una serie di privilegi al monastero monopolitano di Santo Stefano, tra i quali era annoverata anche la chiesa in esame. Il sito viene nuovamente ricordato in un documento del 1195 con cui Enrico VI si impossessò, sottraendolo al sopraccitato conte conversanese, del monastero di Monopoli, del casale di Casaboli (presso Noci) e del castello di Putignano, dunque, anche della chiesa in grotta.

Nel XIV secolo Putignano visse, inoltre, un periodo di profonda instabilità, a causa dell’arrivo del duca di Atene e conte di Lecce, Gualtieri VI di Brienne (1304-1356), che usurpò numerosi territori ai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme (i quali, nel 1317, si erano appropriati del monastero monopolitano e, di conseguenza, anche della chiesa putignanese). Tra i territori presi d’assalto dal nobile francese ci fu anche il sito micaelico che dovette subire numerosi soprusi, testimonianti da una serie di ordinanze emanate da re Roberto d’Angiò (1277-1343) e dalla regina Giovanna I (1327-1382). Intorno al 1506 la chiesa divenne di proprietà dei Carmelitani, per poi passare nelle mani del demanio pubblico nel 1809, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi; nel 1812 fu ceduta prima al Regio Albergo dei Poveri di Napoli e, in un secondo momento, alla famiglia Acquaviva d’Aragona di Conversano che, a sua volta, la vendette al marchese Lorenzo Romanazzi Carducci, nel 1864. Quest’ultimo costruì, adiacente al luogo di culto, un’imponente villa che, nel corso del Novecento, fu acquistata dal Consorzio Provinciale Antitubercolare e trasformata in un sanatorio, tra il 1933 e il 1934.

La grotta è lunga circa 30 metri, larga 17 e alta 6 e a essa si accede tramite una grande scalinata, fiancheggiata sui due lati, da due coppie di nicchie. Una volta all’interno, l’occhio del fedele visitatore viene immediatamente catalizzato sulla monumentale parete di fondo, su cui è impostata la cappella ogivale centrale. Quest’ultima, denominata da M. Mignozzi ‘Cappella angioina’, è la più antica delle superfetazioni che, ancora oggi, è possibile ammirare nell’antro.

la cappella ogivale centrale… denominata da M. Mignozzi ‘Cappella angioina’

L’intervento angioino di monumentalizzazione si data al secondo quarto del XIV secolo e raggiunge il proprio apice esornativo con l’affresco che adorna l’imponente nicchia. Qui è rappresentata una tra le più complesse scene di Crocifissione riscontrabili all’interno dei contesti rupestri pugliesi, la cui lettura, ultimamente, è stata facilitata dal restauro virtuale, realizzato per la pubblicazione del volume dello stesso M. Mignozzi, (dedicato proprio alla chiesa di San Michele in Monte Laureto). Al centro della scena si staglia il Christus patiens crocifisso, dalle cui ferite zampillano copiosi rivoli di sangue: quelli fuoriuscenti dalle mani sono raccolti, entro calici, da due angeli che si librano in cielo; il sangue che sgorga dal costato, invece, ricade in basso, bagnando il Golgota alla cui base si riconosce il teschio di Adamo. Sulla sinistra della scena è raffigurato il deliquio della Vergine, un episodio riportato solamente dai Vangeli apocrifi: Maria è rappresentata nell’atto di svenire, mentre il suo corpo viene sorretto dalle Pie Donne, tra cui è possibile riconoscere Maria Maddalena, grazie a un’iscrizione che la identifica. Alla destra di Cristo figura san Giovanni Evangelista, rappresentato mentre si contorce il polso sinistro con la mano destra, in un tipico gesto di afflizione. All’estrema destra, invece, campeggia un affollato gruppo di soldati e di anziani del sinedrio, capeggiato da Longino. Tutti i personaggi sono collocati all’interno di un contesto spaziale astratto e tripartito in tre grandi campiture: quelle più esterne sono dipinte in blu, quella centrale è di colore ocra.

L’affresco è stato realizzato su un solo strato di intonaco, dunque, nel corso di un’unica campagna decorativa, in un arco cronologico compreso tra il 1335 e il 1348. La sua esecuzione è stata assegnata, sempre da M. Mignozzi, a due distinti frescanti. Questi artisti, in modalità differenti, attinsero a suggestioni tipiche dell’arte napoletana e di quella umbra di matrice francescana, ispirandosi a maestri quali Montano d’Arezzo, Pietro Cavallini, Maso di Banco e Giotto, ma guardando contemporaneamente anche a quanto stava accadendo in Puglia e, specificatamente, alla campagna decorativa della chiesa di Santa Maria del Casale a Brindisi. Il risultato finale è un’opera, sicuramente frutto di una prestigiosa e colta committenza, che riesce a mitigare in sé tali numerose e differenti influenze.

Oltrepassando il periodo medievale, durante l’età moderna e con l’arrivo dei Carmelitani, la chiesa si arricchì di ulteriori testimonianze artistiche, tra cui la scultura lapidea policroma raffigurante san Michele Arcangelo. Questa fu realizzata da Stefano da Putignano intorno agli anni Venti del XVI secolo e oggi è collocata all’interno della nicchia, posta alla sinistra della ‘Cappella angioina’. L’Arcangelo è raffigurato in una posa chiastica, colto nell’atto di uccidere il drago, sconfitto ai suoi piedi; egli indossa un abito abbondantemente panneggiato, raccolto in vita mediante un sottile cordino e con uno spacco che lascia scoperta la gamba destra, poco sopra il ginocchio; il busto è costretto entro una rigida armatura. San Michele, con il braccio destro sollevato, brandisce una spada nella stessa mano, mentre con la sinistra trattiene uno scudo, decorato con un motivo stellato.

L’Arcangelo è raffigurato in una posa chiastica, colto nell’atto di uccidere il drago

Lo stesso artista, nel 1521, realizzò anche la nicchia alla destra della ‘Cappella angioina’, per volontà del committente Antonio de Antonaciis; nel 1538 all’interno di questo spazio, fu realizzato, probabilmente dal pittore Francesco Palvisino, un affresco in cui figura una Madonna con il Bambino, denominata de lo camino, lateralmente affiancata dai santi Angelo martire e Alberto; entro la calotta absidale, invece, campeggia l’immagine di Dio Padre.

la nicchia alla destra della ‘Cappella angioina’

In ultimo, al medesimo arco cronologico, dunque, al decennio tra gli anni Venti e Trenta del Cinquecento, nonché alla stessa bottega del maestro putignanese, si ascrive anche la realizzazione di una nicchia (posta sulla sinistra, all’altezza della prima rampa di scale), al cui interno è presente la scultura di una Vergine regina: Ella è assisa in trono e sorregge, sulla sua gamba sinistra il Bambino, rappresentato stante e benedicente con la mano destra. In alto, due angeli si librano in cielo e incoronano la Vergine. Gli abiti di tutti i personaggi (tranne il Bambino che è rappresentato in totale nudità) sono abbondantemente panneggiati: Maria, in particolare, sembra essere completamente avvolta dalle morbide volumetrie delle stoffe che le incorniciano il viso e le avvolgono le membra, pur non riuscendo a nascondere la sua possente fisicità. La Vergine e suo Figlio presentano dei tratti fisionomici similari: gli occhi, sottili e allungati, sono incorniciati da un lieve arco sopraccigliare appena accennato che converge in una affusolata canna nasale; le labbra, ugualmente minute, sono lievemente socchiuse. È interessante notare, in bilico tra la mano di Maria e quella del Bambino, la presenza della melagrana, il frutto alludente alla futura passione di Cristo.

La Vergine e suo Figlio…

La committenza dei Carmelitani non si limitò solamente alla realizzazione delle opere esornative: intorno al 1684 (stando alla data incisa all’interno dell’acquasantiera posta sulla destra), fu terminata la struttura che oggi funge da ingresso al sacro antro. Questa è caratterizzata da una muratura perimetrale entro cui si apre un arco a sesto acuto e su cui svetta un campanile a vela (Fig. 6). Quest’ultimo ospita una campana, realizzata nel 1682 (come testimonia la data riportata dall’orazione dedicatoria che ne profila il bordo superiore), protagonista di un evento miracolistico, avvenuto proprio nella chiesa: si narra, infatti, che non appena tale campana fu issata entro l’apposita vela, questa cadde, andando a finire nei pressi dell’attuale nicchia, contenente la statua di San Michele, dove impresse la propria forma circolare. A memoria dell’accaduto, nel 1750, fu allestita una recinzione lapidea, convergente nel piccolo ciborio con cupola sommitale, posto a protezione dell’orma, nonché l’altare, intitolato al santo e decorato con alcune immagini sacre: tra queste si possono riconoscere le rappresentazioni delle tre versioni dell’Apparitio, il racconto leggendario relativo alle epifanie di san Michele Arcangelo sul Gargano. Nello specifico, sulla sinistra si riconosce una scena di battaglia, probabilmente alludente al cosiddetto ‘Episodio della Vittoria’, la stessa raffigurazione dell’Arcangelo che uccide il drago, l’apparizione in sogno di san Michele al vescovo Lorenzo Maiorano (elemento presente in tutti le tre narrazioni) e, in ultimo, l’ ‘Episodio del toro’ con il ricco Gargano che gli scaglia contro una freccia. Oltre a queste immagini ci sono scene di contadini e musici e di animali, reali o fantastici, rappresentati singoli o affrontati (Fig. 7). Durante la stessa campagna decorativa settecentesca furono realizzati anche alcuni affreschi nelle nicchie collocate nel vano d’ingresso: questi risultano, tuttavia, quasi completamente coperte da numerosi strati di scialbo che ne compromettono la leggibilità.

L’analisi delle testimonianze artistiche e, più in generale, degli interventi che sono stati effettuati, nel corso dei secoli, permette di comprendere come, dal Medioevo all’età contemporanea, il culto nei confronti di san Michele Arcangelo si sia mantenuto costante all’interno di questo sito rupestre. La sua monumentalizzazione, inoltre, attesta l’intenzione, da parte dei diversi committenti, di sacralizzare, come fosse una chiesa sub divo, questo antro, peraltro già reso sacro dalla presenza dell’Arcangelo, la cui ala protettrice è sempre pronta (come lo è stata in passato) a salvaguardare la cittadina pugliese e i suoi fedeli abitanti.

Antonella Ventura

Bibliografia

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