La figlia dell’acqua
La figlia dell’acqua (Progedit, 2022) è la seconda convincente prova narrativa di Pasqua Sannelli dopo il suo promettente esordio con Il dono della nuora (2017). Diciamo subito che la scrittura della Sannelli è di quelle che fanno appassionare il lettore. E non tanto per la trama, che, come osservava nel suo breve saggio Sul romanzo (1925) il filosofo Ortega y Gasset, è solo un pretesto, «è come il filo che è tiene unite le perle di una collana», quanto per la caratterizzazione dei personaggi e la descrizione degli ambienti in cui si muovono. Nel romanzo moderno, infatti, a differenza di altre forme, come il racconto, l’epica o il romanzo d’avventura o d’appendice, l’attenzione del lettore si focalizza sui personaggi inseriti in un dato ambiente. L’atmosfera conta più degli accadimenti, la descrizione più della narrazione.
La voce narrante è quella di Giulia, la più riflessiva e certamente la più ferita dalla vita delle quattro figlie, che insieme alla madre sono le protagoniste del romanzo. «La ferita è stata la barca con cui ho attraversato il mondo», a un certo punto confessa Giulia a se stessa. C’è infatti un tormentoso segreto che ha condizionato non solo il suo rapporto con la madre, ma la sua intera esistenza. La riapertura del delitto Malvati, un individuo spregevole che grazie alla sua posizione in azienda non si è fatto scrupolo di scambiare favori con sesso e prestare a strozzo soldi, insieme alla malattia neurologica della madre, elegante e autoritaria «nonostante quel suo sbattersi notte e giorno per la famiglia», sono l’occasione per Giulia di riconsiderare tutto il suo passato di cui è ancora prigioniera. Una cieca rabbia che si alimenta di sospetti, di parole non dette e sottintese, di incomprensioni straccia il suo senso di compassione filiale, che pure a tratti compare nel suo animo.
Sfilano davanti ai nostri occhi le sorelle e le loro vite con gli inevitabili screzi e le rivalità: Marta bella e calcolatrice, Marianna mite e svagata, Nadia altruista e contestatrice. E Giulia rievoca tra l’altro con tenerezza la figura del padre operaio, con il suo inappagato ideale d’una società più giusta, venuto a mancare anzitempo per un male contratto lavorando nella grande acciaieria.
Dunque, il romanzo è innanzitutto la storia di una famiglia. È in particolare la storia di donne, «ciascuna con la sua forte personalità – come scrive Daniele Giancane nella prefazione – che però vivono all’interno di un contesto spesso degradato, che rende ancor più difficoltosi i rapporti, fino alla prostituzione e agli abusi». Ma è allo stesso tempo un affresco della città di Taranto, che sorge come un delfino tra i due mari, bella e ricca di storia (la città vecchia, le colonne doriche del tempio di Poseidon, l’antico borgo umbertino, le costruzioni fasciste), e che è stretta, dopo il tramonto del sogno industrialista, tra criminalità e degrado, con i suoi abitanti che vivono un profondo disagio sociale ed esistenziale e con i suoi «angoli di solitudine, di rottami e di ruggine» e le sue tristi periferie sorte a ridosso della grande acciaieria, che dà lavoro, ma anche morte e grigiore. «Su tutto – scrive la Sannelli – si stendeva uno strato di melma rugginosa di polveri che il vento aveva trasportato dai parchi minerari dell’Ilva».
È la città con le sue contraddizioni e con le illusioni del progresso l’altra grande e silenziosa presenza del romanzo. Ognuno di noi infatti è per metà ciò che egli è ed aspira ad essere e per l’altra metà è l’ambiente in cui vive. E quasi uno specchio del proprio male di vivere è quella pioggia – quasi un basso continuo – che accompagna insistentemente dalla prima all’ultima pagina del romanzo le vicende, i ricordi, i personaggi e rende tutto più grigio, più desolato, più anodino. L’industrializzazione non ha reso più felici gli uomini. In compenso ha restituito loro una città malata. Se la città vecchia conserva ancora tracce di vita, la città nuova sembra avvolgere gli uomini in una ragnatela da cui non possono uscire.
Il romanzo si chiude tuttavia con una nota di speranza: la riappacificazione tra le sorelle, l’amore ritrovato per Giulia. Scrive la Sannelli: «Tutte avevamo trovato un posto nel mondo, lontano dal quartiere, eppure, per vie traverse, quella mattina, ognuna di noi cercava, forse senza saperlo, un punto di saldatura del prima e del dopo». Chi è dunque la figlia dell’acqua? È Giulia ed è il quartiere, è la storia della propria famiglia e la storia della propria città. Bisogna fare i conti col passato, perché siamo passato, e poi spingersi, come nota nelle battute finali del romanzo la scrittrice, nel corso nuovo delle cose.
Sandro Marano