La teologia e l’accettazione del limite

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«Dio è luce e in lui non ci sono tenebre». Così scrive l’apostolo ed evangelista Giovanni (il “Teologo”, per gli Orientali) diffondendo il glorioso annuncio divino nella sua prima lettera. Quello della luce, del resto, è un tema ricorrente nel quarto Vangelo, in cui lo sfolgorante annuncio del Lògos incarnato si contrappone alle tenebre dell’ignoranza e della malignità umane, incapaci di accoglierne la portata salvifica. Una contrapposizione dicotomica assoluta fra bene e male, fra alto e basso, fra Verità e Menzogna. Un rapporto che ritornerà circa cinque secoli dopo nella predicazione di un altro “inviato” che, dalle sabbie della Penisola Arabica affermerà: «La retta via ben si distingue dall’errore» (Corano II.256).

Tale contrapposizione fra luce e tenebre, bene e male, ha segnato con decisione l’impostazione della teologia cristiana, la quale deve però molto del suo immaginario alla letteratura sacra giudaica e alla stessa mitologia greco-romana (si pensi, ad esempio, al ruolo fondamentale ricoperto dal culto solare in periodo ellenistico). Non sarebbe sbagliato parlare dunque di una “teologia solare”, se non fosse per il fatto che in questo caso non è necessario creare neologismi. Già esiste una definizione: è la “teologia positiva”; cioè quel particolare (e diffusissimo) approccio alla scienza divina che presenta le realtà spirituali in un linguaggio il più possibile razionale e schematico. La teologia positiva si propone, in altre parole, di rendere il più chiaro e comprensibile possibile la rivelazione di Dio, stendendone quasi una sintesi di facile memorizzazione e sottoscrivibile da tutti i fedeli. È la teologia delle accademie pontificie, dei concili dogmatici e delle encicliche. Ancora, essa è la Parola di Dio filtrata dal luminoso setaccio della ragione, anzi della ragionevolezza. Teologia solare, appunto, perché in essa non si nascondono insidie, e anche il Mistero di Dio trova il suo (angusto) cantuccio esegetico e tranquillizzante. L’ordine logico-consequenziale prevale in questa metodologia tanto sistematica e dal solido impianto: non c’è spazio per le tenebre dell’irrazionale e dell’inspiegabile.

Eppure, sembra che sia proprio questa teologia oggi a spaventare e allontanare tanti dalla fede cristiana, almeno in Occidente: vuoi per l’eccessiva pretesa di razionalità, troppo spesso tradita dalle inevitabili incertezze e dagli inestricabili cortocircuiti logici cui la vita ci mette davanti; vuoi per la necessità dell’uomo di distogliere lo sguardo dal sole troppo accecante della ragione che tutto spiega. L’uomo del Terzo Millennio poco si fida di una fede che ritiene di poter tutto illuminare e definire. Scriveva Martin Buber: «Ogni religione positiva si fonda su un’immensa semplificazione di ciò che nel mondo e nell’anima, con tanta molteplicità ed esuberanza d’intrecci, penetra in noi: essa è argine, violento contenimento della pienezza dell’esistente».

L’uomo a noi contemporaneo ricerca uno spazio ombreggiato per il proprio spirito, ha bisogno di una spiritualità notturna per la propria anima. E non credo di sbagliarmi nell’affermare che l’Oriente (per paradosso, la terra dove sorge il Sole) possa offrire un ombroso riparo all’anima accaldata e riarsa dell’uomo occidentale. Con la sua teologia negativa, apofatica, cioè “incapace di affermare con certezza”, l’Oriente Cristiano – erede di una tradizione neoplatonica mai abbandonata e sempre più cristianizzata – è forse più capace di offrire in questi tempi delle risposte ai quesiti della vita che, lungi dal proporre schemi fissi o soluzioni luminose, sanno fornire un metodo di approccio alla realtà più verosimile, che non neghi le ombre e le tenebre, ma le accolga come segno del Mistero di Dio e della sua creazione. È innegabile infatti che la vita spesso presenti enigmi di difficile, se non impossibile soluzione; ed è altrettanto innegabile che spesso noi stessi non abbiamo intenzione di sciogliere il segreto che avvolge alcuni nostri interrogativi, trovando maggior diletto e consolazione nella venerabile inviolabilità del Sacrum, che nella placida praticità dell’evidenza. Trovo che sia iconica la teofania dell’Oreb (ripresa poi dai testi evangelici nella narrazione della Trasfigurazione di Cristo): la gloria (chavōd) con cui si manifesta Dio dinanzi a Mosè è talmente forte da abbagliare e uccidere il profeta stesso. La luce di Dio quindi, nella sua essenza più pura, ha come effetto l’esatto contrario di quello che vorremmo, per desiderio di utilità: toglie la vita, non fa vedere. Ma non solo: il Signore, nel medesimo libro dell’Esodo, si mostra avvolto da una nube o da un fumo che ne impedisce la visione. Ed ecco che proprio quel muro nebuloso che impedisce lo sguardo, in realtà ci svela precisamente la realtà di Dio – e dunque la realtà della vita, che prima di essere un concetto definibile e descrivibile è per tutti un mistero indicibile ma preziosissimo. Nel suo trattato “La Teologia Mistica”, Dionigi l’Areopagita, punto di riferimento per eccellenza della teologia apofatica greca, ebbe a dire: «Mosè, oltrepassando il mondo in cui si è visti e si vede, penetra nella Tenebra veramente mistica dell’inconoscenza; là egli fa tacere ogni sapere positivo, sfugge interamente a ogni pretesa di possesso e a ogni visione, perché appartiene completamente a Colui che è al di là di tutto…avendo rinunziato a tutto il sapere positivo, e grazie a questa inconoscenza stessa conoscendo, al di là di ogni intelligenza».

Una teologia capace di accogliere anche le tenebre nella propria spiritualità potrà solo essere più completa e aderente alla realtà. E come la vita segue il ciclo delle stagioni, così anche noi siamo chiamati a riscoprire una teologia velata da nebbie autunnali.

Francesco Cenati