L’anima nobile del Barone di Levi

L’intellettuale torinese Carlo Levi, medico pittore giornalista, rinviene nell’esperienza di confino in Lucania quella chiave di magia che gli permette di penetrare nell’arcano mondo contadino. Una magia che permea ogni pagina di quello che potrebbe essere considerato un “memoriale” e che ne costituisce l’essenza.

Cristo si è fermato a Eboli  è questo e molto di più. Al di là dell’impegno politico-sociale che Levi si prefigge, al fine di livellare le differenze tra quelle che lui definisce “l’Italia colta” e “l’Italia incolta” (umana e preumana), vi è un altro aspetto che riaffiora prepotente tra queste pagine e che si lega intrinsecamente al mistero.

Un mistero unito al destino dei personaggi che Levi, con curiosità artistica e acutezza giornalistica, restituisce mediante una scrittura che possiede in sé la stessa efficacia figurativa di un dipinto. Gli abitanti di Gagliano, il piccolo borgo lucano “nell’oltre Eboli” dove è stato inviato dal regime fascista, vengono descritti in maniera realistica e spesso con una connotazione ironica. Levi ce li mostra come se li stesse fissando sulla tela in quel momento.

Il podestà «è un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione».

Il dottor Milillo «ha una sessantina d’anni o poco meno. Ha le guance cascanti e gli occhi lagrimosi e bonari di un vecchio cane da caccia. È imbarazzato e lento nei movimenti, più per natura che per l’età. Le mani gli tremano, le parole gli escono balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente».

Ma vi è un’intensa pagina descrittiva in cui Levi raggiunge l’acme di una testimonianza che assume i tratti di un cosmico lirismo esistenziale, come ho sottolineato nel corso della mia relazione all’Università di Milano. È quella dedicata al suo amato cane Barone, offertogli in dono dagli abitanti di Grassano (prima tappa del suo periodo di confino) affinché gli alleviasse il senso di solitudine.

«Era di media grandezza, tutto bianco, con una macchia nera sulla punta delle orecchie, che aveva lunghissime e pendenti ai lati del viso. Questo era molto bello, come quello di un drago cinese, spaventoso nei momenti di furore ma con due occhi rotondi e umani, color nocciola, coi quali mi seguiva senza voltare il capo pieno di dolcezza, di libertà e di una certa infantile misteriosa arguzia».

L’attrazione di Levi per il mistero si coniuga al candore insito nelle anime pure. Una doppia natura che costituirà il fulcro del suo attraversamento penetrante animato da una curiosità antropologica.

Dalla descrizione fisica traspare la personalità e il destino di ciascun personaggio. Un destino che in Barone sembra attingere a radici profonde che profumano di mito. Quel senso del selvaggio in cui risiedono valori puri come la fierezza, la libertà, la fedeltà e una endogena nobiltà.

«Era allegro, libero e selvaggio: si affezionava, ma senza servilità; ubbidiva, ma conservava la sua indipendenza; una specie di folletto o di spiritello familiare, bonario ma in fondo irraggiungibile. I contadini che vivono immersi nell’incanto animalesco, si accorsero subito della sua natura misteriosa. (…) E poi il mio cane si chiamava Barone. In questi paesi, i nomi significano qualcosa: c’è in loro un potere magico. Egli era dunque davvero un barone, un signore, un essere potente da rispettare. Per i ragazzi del luogo, Barone era un animale araldico, il leone rampante sullo scudo di un signore. E tuttavia era soltanto un cane, ma questa sua doppia natura era meravigliosa. Anch’io lo amavo per questa sua semplice molteplicità. Ora egli è morto, come mio padre a cui l’avevo regalato, ed è sepolto sotto un mandorlo in faccia al mare di Liguria».

Un’anima pura e arcana che possiede in sé il fascino di una terra imperscrutabile. Anche attraverso lo sguardo aristocratico e vigoroso di Barone, Levi comincia a considerare quella realtà, a lui inizialmente aliena, come un microcosmo da preservare mediante la comprensione di quelle istanze contadine sottaciute e nascoste sotto il velo della superstizione. Una rassegnazione, mitigata dalla speranza che non ha mai il sapore amaro dell’illusione ma sempre la nobile virtù della pazienza.

Stefania Romito