Le Chiese, gli Stati e la geopolitica

In Europa occidentale la religione sta sempre più perdendo il suo legame con l’identità nazionale. Con la secolarizzazione, si è sviluppata la tendenza a relegare la religione nell’ambito delle scelte individuali riducendo e spesso annullando il suo carattere di fenomeno identificante ed unificante di una nazione. Questo è avvenuto con forza dirompente nei Paesi protestanti ma è un fenomeno in aumento anche in quelli cattolici. Oggi solo il 23% dei francesi ed il 30% dei tedeschi ritengono la religione cristiana un importante elemento dell’identità nazionale. D’altro canto, la stessa Costituzione europea, negando le “comuni radici cristiane”, ha di fatto marginalizzato il ruolo della religione a semplice eredità culturale, togliendole, in nome di una laicità ideologica, il carattere di identità fondante. La perdita di ruolo della religione come fattore unificante non è solo un problema sociologico o storico-filosofico ma ha profonde ricadute anche da un punto di vista geopolitico: relazioni, equilibri di forze, dinamiche regionali, processi decisionali non hanno più nell’identità religiosa cristiana un fondamento.

Eppure esiste un altro cristianesimo, in una parte dell’Europa, che rivela ancora una forza geopolitica capace di dare forma al senso di appartenenza di una nazione e di una comunità: è il cristianesimo ortodosso. Una recente ricerca nei paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, dimostra che le nazioni a maggioranza ortodossa ritengono la religione parte importante dell’identità individuale e nazionale, una sorta di reazione alla repressione ed all’ateismo di Stato imposti dal comunismo. Come spiegano i ricercatori, “in questi paesi la religione e l’identità nazionale sono strettamente intrecciate”. (https://www.pewresearch.org/wp-content/uploads/sites/7/2018/05/Being-Christian-in-Western-Europe-Overview-FINAL-ITALIAN.pdf e https://www.pewforum.org/2018/05/29/being-christian-in-western-europe/).

La ricerca ha coinvolto 18 nazioni, di cui 4 a maggioranza cattolica (Polonia, Ungheria, Croazia e Lituania) 10 a maggioranza ortodossa (Russia, Ucraina, Grecia, Romania, Bielorussia, Moldavia, Serbia, Bulgaria, Georgia e Armenia) e 4 “miste” (Estonia, Lettonia, Bosnia e Repubblica Ceca). Per i ricercatori, il fenomeno del ritorno della Religione nei paesi ortodossi una volta sottomessi a regimi atei “è sorprendente”. In alcuni di questi l’adesione al cristianesimo è addirittura raddoppiato: nel 1991, solo il 37% dei russi si definiva ortodosso, mentre oggi è il 71%; in Ucraina si è passati dal 39% al 78% ed in Bulgaria dal 59% al 75%. Al contrario, nei paesi a maggioranza cattolica, l’adesione religiosa è diminuita; nella cattolicissima Polonia le persone che si definivano cattoliche nel 1991 erano il 96%, oggi sono l’87%. Nella Repubblica Ceca l’adesione al cattolicesimo si è dimezzata, tanto che oggi ben il 72% degli abitanti si definisce non affiliato ad alcuna religione. Insomma i paesi cattolici dell’Europa orientale subiscono il processo di secolarizzazione tipico di quelli occidentali. E se da una parte i cattolici sono più praticanti degli ortodossi, dall’altra gli ortodossi definiscono la propria fede fondamentale per l’identità nazionale: “In tutti i paesi dove i cristiani ortodossi compongono la maggioranza, in media il 70% dice che è importante essere ortodossi per condividere veramente l’identità nazionale del paese”.  E se questa convinzione è nettissima in Armenia (87%), Georgia (81%), Serbia (78%) e Grecia (76%), è invece incredibilmente bassa in Russia (57%) manifestazione di una nazione il cui carattere multietnico e multiculturale impone che la religione ortodossa sia solo una delle forme plurali di identità nazionale.

Nella ricerca compare un aspetto che ha delle imponenti ricadute geopolitiche. In quasi tutti i paesi ortodossi la maggioranza degli intervistati è favorevole ad una “Russia forte per bilanciare l’influenza dell’Occidente, proteggere i cristiani ortodossi e le persone di etnia russa al di fuori dei loro confini”; e questo sentimento è diffuso anche in tre Paesi che aderiscono all’Unione Europea: Bulgaria, Grecia e Romania. Solo in Ucraina il sentimento anti-russo prescinde dalla comune appartenenza religiosa ed un ruolo geopolitico di Mosca è osteggiato; ovviamente questo è legato all’attuale conflitto. Armenia (83%), Serbia (80%), Bielorussia (76%) e Grecia (70%) sono i paesi in cui i sentimenti filorussi sono più diffusi. La tendenza si manifesta anche nel riconoscimento del Patriarca di Mosca come più alta autorità religiosa nei paesi che non hanno una chiesa nazionale, con l’unica eccezione della Grecia dove è invece riconosciuta la supremazia del Patriarca di Costantinopoli. Il sentimento religioso nei paesi dell’Europa orientale ed ortodossa è un aspetto troppo spesso sottovalutato dai decisori del laico Occidente ma esso determina senso di appartenenza profondo e radicato. Isolare la Russia dal contesto europeo significa generare una frattura ben più ampia nelle sue implicazioni politiche di quanto le forze politiche al governo in Occidente riescano ad immaginare.

Per chi si occupa di geopolitica si tratta di un rovesciamento speculare del paradigma prevalente in Occidente ed accettato ormai dalle forze politiche maggioritarie di centrodestra e centrosinistra: conservatorismo sui temi economico-sociali, nel senso di accettazione incondizionata del mercato con al massimo qualche timidissima correzione, e progressismo nei valori, nel senso di rifiuto e dissoluzione di ogni valore tradizionale. Due altre cose sono da sottolineare nell’azione politica di Putin. Il richiamo a quei valori che sono profondamente radicati nel popolo e quindi la loro conservazione è sinonimo di democrazia in contrasto col tentativo di estirparli per imporre alla vita reale idee astratte, come accade nei paesi occidentali, e il rifiuto del relativismo che non sa o non vuole distinguere fra bene e male. Ma questi non sono altro che i fondamenti di una società comunitaria, che richiede un idem sentire, un cemento spirituale forte la cui carenza spiega il fallimento del comunismo sovietico basato sulla concezione economicista dell’interesse di classe, derivata dallo stesso Marx.

Difficile dar torto al filosofo Alexandr Dugin, fondatore e presidente dell’associazione Eurasia, che individua nel modello americano una sorta di nichilismo attivo.

Se l’identità si definisce partendo da ciò che le si oppone, ossia in termini à la Carl Schmitt dalla logica amico-nemico, in un mondo multipolare, osserva, l’Occidente si è ritrovato senza nemici, rivolgendosi così al proprio interno. La Russia putiniana, in questa chiave di lettura, è l’ultima speranza per l’Occidente di trovare un avversario fuori dai propri confini. Fallito questo tentativo, il processo di auto dissoluzione già in atto subirà un’accelerazione. La dissoluzione interna di legami, di cui le recenti crisi finanziarie sono un sintomo, non la causa, la fine del lavoro, della famiglia, la neo schiavitù, le nuove generazioni iper-tecnicizzate ma consegnate alla «dementia digitalis», il bio potere spinto all’estremo… Tutto convergerà verso quel centro che ha un nome semplice e fragile al tempo stesso: la vita. Con quali conseguenze è facile, ma al tempo stesso terribile, immaginarlo. Se la lettura di Dugin è corretta, il turbocapitalismo finanziario svuoterà l’individuo di ogni residuo legame col mondo.

Per Dugin gli Stati Uniti rappresentano la forma della modernità assolutizzata, senza radici. Il vecchio mondo europeo o russo rappresenta la tradizione, ovvero la modernità con radici. Il concetto di Eurasia è così il concetto di realtà radicata. Si tratta, quindi di un concetto di civilizzazione che non si basa sulla dimensione universalista e mercantilista, ovvero su un’antropologia individualista. Tutt’altro. In questo senso Eurasia, come concetto, è sinonimo di conservazione del vecchio mondo, a fronte del nuovo mondo.

Sia i concetti espressi da Dugin, sia quelli contenuti nel discorso di Putin, si richiamano all’eredità spirituale di Alexandr Solženicyn. Lo scrittore, che pure aveva combattuto contro i nazisti nelle file dell’Armata Rossa, fu esiliato nel 1974 prima in Svizzera e Germania, poi negli Stati Uniti. Qui, dapprima osannato per il suo anticomunismo, dovette poi patire tutta la delusione per quell’Occidente in cui riponeva le sue speranze. Nel discorso tenuto ad Harvard l’8 giugno 1978 in occasione del conferimento delle laurea ad honorem in letteratura, dal titolo «Un mondo in frantumi», così espresse i suoi sentimenti: «Non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della società sovietica», perché il cammino che abbiamo percorso a partire dal Rinascimento ha arricchito la nostra esperienza, ma ci ha fatto anche perdere quel Tutto, quel Più alto che un tempo costituiva un limite alle nostre passioni ed alla nostra irresponsabilità. Abbiamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali ed il risultato è che ci viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interiore. All’Est è il bazar del Partito a calpestarla, all’Ovest la fiera del commercio.

Parole inequivocabili, che se lette alla luce di quest’altre: Veramente non esiste al di sopra dell’uomo uno Spirito supremo? Veramente la vita dell’uomo e l’attività della società devono anzitutto valutarsi in termini di espansione materiale?

Ed alla critica al sistema occidentale dei media: la stampa (uso la parola ‹stampa› per designare tutti i mezzi di informazione di massa) è diventata la più grande potenza in seno ai paesi occidentali… Ma andare al nocciolo dei problemi le è controindicato, non è nella sua natura; essa non considera che le formule a sensazione. L’Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezione puntigliosa separando le idee alla moda da quelle che non lo sono… Senza che vi sia, come nell’Est, aperta violenza, questa selezione operata dalla moda… impedisce ai pensatori più originali di apportare il loro contributo alla vita pubblica, e provoca la comparsa di un pericoloso spirito gregario che è d’ostacolo ad uno sviluppo degno di questo nome, disegnano la distanza della sua concezione tanto dall’esperienza del socialismo reale quanto dalle società capitalistiche occidentali. Nelle quali, dopo la cadute dell’Urss, è stato accusato di oscurantismo reazionario da parte del variegato mondo liberal e progressista. La proposta di Solženicyn non è però la riedizione reazionaria della società castale, ma semplicemente quella di una società che, senza disdegnare affatto la ricchezza materiale, non impoverisca spiritualmente gli uomini. Valgano allora queste parole di Eugenio Corti a commento di quel discorso: “…ciò che più colpisce chi scrive queste note è però un’altra cosa: il fatto che i cristiani anzi i cattolici non abbiano immediatamente individuato nel discorso di Solženicyn il discorso che è stato loro proprio finché la cultura cattolica non è entrata nell’attuale stato di confusione…”.

Riemerge il sogno di Mosca come terza Roma, oggi in opposizione all’impero statunitense e legittima erede spirituale di Bisanzio, rivendicato fin dalla metà del 1400 da Ivan III di Moscovia. A quel tempo la rivendicazione poggiava anche su basi religiose, e la Russia si poneva come difensore della Chiesa Ortodossa, oltre che contro l’Islam, anche contro il principio di supremazia del papato romano. La prima Roma era collassata a causa delle sue debolezze interne oltre che per le invasioni barbariche, Bisanzio era caduta per mano turca, Mosca si propose come loro erede, e centro della Cristianità.

Il sogno della Russia erede dell’Impero romano è stato inseguito con tenacia dagli Czar, ma non si è interrotto, nemmeno nel periodo comunista, allorché Stalin fece del proprio paese il centro mondiale dell’internazionalismo proletario, dovendo però anch’egli ricorrere ai vecchi simboli religiosi, come quando nell’autunno del 1941, alla vigilia della Battaglia di Mosca, fece sorvolare la capitale da un aereo su cui era stata caricata l’icona della Madre di Dio di Vladimir per invocarne l’aiuto contro l’attacco tedesco.

Complessivamente, anche da questa angolazione si ripropone la radicale alterità fra il potere imperiale degli USA, esercitato lasciando autonomia giuridica ai paesi nella propria orbita ma unificandoli sotto il proprio modello economico e politico, e la concezione di impero classica, che invece, ferma l’unità amministrativa, intende rispettare le differenti tradizioni religiose e culturali.

L’emergere della Russia come potenziale centro d’aggregazione culturale ed economico alternativo agli USA, propone, o ripropone, in maniera stringente due ordini di problemi, l’atteggiamento e le scelte dell’Europa occidentale ed i rapporti fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, problemi che non coincidono ma si intrecciano.

Per Putin, nonostante la maggior parte del suo territorio si estenda in Asia e funzioni da cerniera con l’Oriente, la Russia è Europa, e l’Europa non potrebbe dirsi tale senza la Russia. E ciò dal punto di vista spirituale, culturale, sociale ed anche economico.

Se ai tempi dell’Urss potevano esserci pochi dubbi sulla scelta di schieramento, oggi la situazione sembra radicalmente mutata, quasi rovesciata.

Il Capitale, almeno nell’Occidente, si è affrancato dal politico che anzi ha subordinato a sé pretendendo che i propri interessi coincidano con quelli della comunità; la lotta di classe del proletariato si è stemperata in rivendicazioni puramente sindacali nel quadro di un’accettazione incondizionata dei rapporti di produzione capitalistici da un lato, e dall’altro nell’accettazione altrettanto incondizionata da parte dei suoi pretesi rappresentanti politici, dei canoni culturali propri del capitale: atomismo individualista, così detti diritti umani e civili, scientismo elevato a nuova religione, dissimulati sotto il concetto di democrazia rappresentativa. L’Urss socialista e atea è implosa, lasciando però dietro di sé, oltre alle macerie, anche il ricordo del tentativo di conservare una forma, chiaramente ripreso dalla nuova Russia di Putin.

Il capitalismo finanziario e globalizzato a guida Usa si è insomma emancipato dalle sue precedenti limitazioni e sta dissolvendo ogni tradizione religiosa e culturale, insieme anche al concetto di classe, in nome di un universalismo cosmopolita ed astratto. Sta cioè recidendo le radici culturali nate proprio nella vecchia Europa e frantumando ogni forma estranea a quella della merce, mentre, almeno nelle intenzioni, quelle radici sono rivendicate dalla Russia cristiana.

L’Europa occidentale si trova quindi dinanzi ad una scelta epocale:

1) fra abbandono definitivo delle sue origini profonde o loro riscoperta, in modo da costruire un modello da offrire al mondo come viatico per un uomo nuovo e consapevole di essere faber, sapiens, e sacer;

2) fra il mantenimento di comunità statuali ormai troppo piccole e conflittuali, o la prospettiva di un’entità sovranazionale che comprenda sia lo scacchiere mediterraneo che quello est-europeo e che, nel rispetto delle singole specificità, riunisca, sotto l’egida di un’unica Signoria, la realtà politica oggi frammentata in mille rivoli insignificanti. Tale Signoria, necessariamente supra partes, ma non per questo autoritaria o totalitaria, poco importa se impersonata da un individuo, da un gruppo o da un Consiglio, deve possedere quella sacralità che discende dall’esercizio di un’alta e trascendente missione;

3) fra un’economia che privilegi il liberismo, il denaro, il capitale finanziario, la competitività, la produttività esasperata, il cieco consumo, lo sfruttamento dei meno protetti, in un delirio in cui il mercato è il triste spiritus reffior, o quella in cui la sfera politica deve esercitare uno stretto controllo sull’economia, piegandola, con durezza se necessario, alle sue leggi e non viceversa.

Certamente il modello d’Europa sopra descritto non somiglia neanche lontanamente all’attuale Unione Europea, che anzi ha rescisso, rifiutando di citarle nella sua Costituzione, le sue radici greco-giudaico-cristiane, che rifiuta ogni valore ed ogni tradizione religiosa da cui è nata in nome di una malintesa laicità, che appare priva di autonomia politica dal partner statunitense e prona ai voleri del mercato e dei finanzieri. È vero che in molti dei suoi paesi si manifestano disagi, contraddizioni, insofferenze per questa Europa, ma credo di non sbagliare dicendo che da sole, queste forze sono destinate alla sconfitta.

Non credo sia improprio riportare questo passo di Carl Schmitt del 1923:

“È impossibile una riunificazione fra la Chiesa Cattolica e l’odierna forma dell’industrialismo capitalistico. All’alleanza di trono ed altare non seguirà quella di ufficio ed altare, né quella di fabbrica ed altare. Rimane tuttavia ben vero che il cattolicesimo saprà adattarsi ad ogni ordine sociale e politico, anche a quelli in cui dominano gli imprenditori capitalistici o le organizzazioni dei lavoratori e dei consigli di fabbrica. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il potere basato su una situazione economica sarà divenuto politico, cioè se i capitalisti od i lavoratori giunti al potere si assumeranno la responsabilità, in tutte le forme, della rappresentazione statale. Allora, il nuovo potere sarà costretto a far valere una situazione diversa da quelle puramente economiche o di diritto privato; il nuovo ordine non può esaurirsi nella gestione del processo di produzione e di consumo, poiché deve essere formale. Il dominio del capitale esercitato dietro le quinte, non è ancora una forma, anche se può certamente svuotare una forma politica esistente e ridurla a vuota facciata. Se il capitale riesce in questo intento, potrà dire di avere completamente spoliticizzato lo Stato; se il pensiero economico riesce a realizzare i propri fini utopistici, di condurre la società umana ad una condizione assolutamente impolitica, la Chiesa resterà l’unica depositaria di pensiero politico e di forma politica: deterrebbe così un monopolio mostruoso, e la gerarchia ecclesiastica sarebbe allora più vicina al dominio politico mondiale di quanto lo sia mai stata nel Medioevo. Ma secondo la sua stessa teoria e la sua struttura ideale, la Chiesa non dovrebbe affatto desiderare una situazione di questo tipo, dato che presuppone accanto a sé lo Stato politico, una societas perfecta e non un trust d’interessi. La Chiesa vuole convivere con lo Stato, in quella particolare forma di comunità in cui due rappresentazioni si stanno di fronte come partner”.

Schmitt si riferisce alla Chiesa Cattolica e vedeva nello spirito russo «che volge le spalle all’Europa», combinato con la lotta di classe del proletariato industriale urbano, l’avversario della tradizione europeo-occidentale e della sua cultura, tuttavia scrive anche:

“Io so che nell’odio russo contro la cultura occidentale può esserci più cristianesimo che non nel liberalismo e nel marxismo tedesco, che grandi cattolici hanno considerato il liberalismo un nemico peggiore dell’aperto ateismo socialista e che, infine, nell’assenza di forma potrebbe esserci la forza potenziale capace di una nuova forma, capace cioè di dar forma anche all’epoca tecnico-economica.

I rapporti fra Cattolicesimo e Chiesa Russo-Ortodossa sono sempre stati difficili fin dallo scisma del 1054, nonostante la riconosciuta vicinanza sul piano dogmatico e morale, sul quale non mi addentro per mancanza di competenza e perché è una problematica che esula dagli scopi di questo scritto. Mi limito perciò ad accennare al problema sorto in seguito alla decisione della Santa Sede di erigere come diocesi le quattro amministrazioni apostoliche costituite in Russia negli anni Novanta: a Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk”.

In quell’occasione il Patriarcato di Mosca accusò in sostanza la Santa Sede di proselitismo indebito nel territorio canonico della Chiesa Ortodossa.

La fondazione di una «provincia ecclesiastica», una «metropolia», significa di fatto la fondazione di una Chiesa Cattolica Nazionale in Russia, che ha il suo centro a Mosca, e che vanta il popolo russo, che culturalmente, spiritualmente e storicamente è il gregge della Chiesa Ortodossa Russa, come proprio gregge. La formazione di una tale chiesa in Russia significa di fatto una sfida all’Ortodossia che è stata radicata per secoli nel paese.

Per risposta il cardinale Walter Kasper, all’inizio nel 2002 pubblicò su La Civiltà Cattolica, un documento dal titolo «Le radici teologiche del conflitto tra Mosca e Roma» in cui scrisse fra l’altro:

“La Chiesa Ortodossa Russa da più di un decennio si trova posta di fronte al mondo moderno pluralista, dopo un lungo periodo di oppressione comunista. Si capisce pertanto come essa sia ancora alla ricerca di una sua collocazione. E questo richiede pazienza da parte nostra. Essa si mantiene ancora chiusa e ritiene che la libertà religiosa sia soltanto espressione dell’individualismo liberale dell’Occidente. Per essa il coinvolgimento sociale e culturale ha la precedenza rispetto alla libertà personale, anche per quanto riguarda la pratica religiosa.

Diventa chiaro così quale sia il profondo retroscena teologico che si nasconde dietro il dibattito sul principio del territorio canonico e del proselitismo. Le argomentazioni della Chiesa Ortodossa russa sono sostanzialmente di natura ideologica; essa difende non solo una realtà russa che ormai non esiste più, ma anche una relazione tra Chiesa e popolo oppure tra Chiesa e cultura, che è problematica sul piano teologico e tende ad assicurare l´egemonia della Chiesa Ortodossa Russa a detrimento non solo della Chiesa Cattolica ma anche della libertà della persona”.

Si vanno così delineando i contorni del conflitto, per capire meglio il quale faremo riferimento ad un articolo di Vladimir Zelinskij, sacerdote ortodosso e docente di Lingua e civiltà russa all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Zelinskij distingue tre tendenze all’interno della Chiesa Ortodossa:

— L’integralismo, nelle due versioni teologica-ecclesiale e politica. Per la prima l’Ortodossa è l’unica Chiesa di Cristo, mentre nelle altre non esistono più né grazia né salvezza. Il dialogo e l’ecumenismo sono dunque eresie ingannevoli e pericolose. La seconda è caratterizzata da un forte antioccidentalismo ed antisemitismo, ed il dialogo non esiste nemmeno sotto forma di ravvedimento. È dichiaratamente ostile verso tutti i cristiani non ortodossi ma anche verso gli ortodossi colpevoli di ecumenismo. Questo tipo d’integralismo si caratterizza come movimento politico ultranazionalista d’estrema destra, composto per la maggior parte da ex membri del partito comunista, che inneggia alla monarchia assoluta e chiede l’assoluto divieto di attività sulla terra ortodossa per qualsiasi altra religione. C’è, infine, anche una terza versione dell’integralismo, quella dei convertiti da altre confessioni, in specie quella cattolica, per i quali l’ecumenismo è solo un dannoso mischiarsi con il papismo.

— L’ecumenismo, il gruppo meno numeroso, per niente influente politicamente ma presente sul terreno culturale, che cerca l’unità con la Chiesa Cattolica come «guarigione dalle malattie interne all’Ortodossia», l’integralismo, lo spirito conservatore, la chiusura al mondo contemporaneo.

— Il tradizionalismo, senz’altro la componente più numerosa ed influente della Chiesa Ortodossa. Gli appartenenti a questo gruppo sono fortemente radicati nel patrimonio dogmatico della Chiesa, e nutrono un amore spirituale, «ma anche viscerale, verso tutta l’eredità di fede custodita dalla Chiesa», e verso tutte le sue manifestazioni: «la vita dei santi, la melodia del canto, la solennità delle celebrazioni, la lingua delle preghiere, la semioscurità del tempio con le sue icone». I tradizionalisti non scindono «lo spirito ascetico dal corpo fisico, storico, nazionale, a volte anche etnico». Per loro l’attaccamento alla fede vuol dire anche terra, popolo, patria.

Solo rispettando questo bagaglio, prosegue Zelinskij, il tradizionalismo potrà aprirsi al dialogo senza diventare antioccidentale.

Se per la maggior parte dei cattolici andare al passo coi tempi è considerato un impegno anche religioso, per la maggior parte degli ortodossi essere cristiani significa ‹essere fedeli alla Fede dei padri›, anche al prezzo di essere culturalmente e psicologicamente tagliati fuori dal mondo.

È questo il gruppo a cui la Chiesa di Roma dovrebbe rivolgersi per il dialogo. Senza facile ottimismo, né chiusura dovuta all’errore di confondere il tradizionalismo con l’integralismo e quindi tracciando il confine immaginario dell’Europa nel punto in cui comincia l’Ortodossia, ma capendo soprattutto che gli ortodossi, dopo la caduta dell’Urss, si sono sentiti assediati «dalle sette provenienti dall’Oriente e dall’Occidente, e soprattutto da quella stessa Chiesa Cattolica che dopo il concilio Vaticano II si era proclamata sorella», e che agli occhi degli ortodossi hanno fatto della Russia una terra di conquista approfittando della debolezza materiale e della carenza di personale religioso dopo settant’anni di comunismo.

Credo sia ora più chiaro che la materia del competere si focalizza sulla diversa interpretazione del rapporto fra Stato e Chiesa che nasce dal diverso significato del concetto di libertà della persona, declinato più in termini comunitari nel caso della Chiesa Ortodossa, più in termini individuali in quello della Chiesa Cattolica.

Se per gli ortodossi Fede significa contemporaneamente terra, popolo e patria, si comprende meglio la natura del rapporto fra le istituzioni politiche e religiose della Russia postcomunista, ognuna della quali si nutre dell’altra in un rapporto biunivoco, ma si capisce anche la differenza rispetto all’universalismo aterritoriale della Chiesa Cattolica alla quale è estraneo il concetto di Chiesa Nazionale.

Se terra, popolo e patria sono elementi comuni a Chiesa e Stato, le due entità tenderanno, almeno parzialmente, a sovrapporsi, e comunque non possono essere pensate come forme concettualmente del tutto separate, ragione per cui l’alleanza fra trono e altare non potrà essere identica a quella convivenza fra partner di cui scrive Schmitt.

Da quell’epoca sono passati quasi cent’anni. Nel frattempo il processo di spoliticizzazione delle istituzioni statuali sempre più ridotte a funzioni subordinate del meccanismo impersonale del capitale è avanzato ulteriormente, ma la gerarchia ecclesiastica mai come ora appare lontana da quel dominio politico mondiale previsto da Schmitt. Mi sembra dunque legittimo chiedersi non solo se la Chiesa Cattolica abbia compreso fino in fondo il significato del processo di spoliticizzazione dello Stato operato dal capitale, ma anche se non sia stata essa stessa coinvolta in quello stesso processo assecondando la pretesa di chi la vorrebbe espellere dal politico per confinare la religione in un ambito puramente personalistico come scelta soggettiva priva di influenza sulla vita pubblica.

La storica diffidenza fra le due Chiese si contestualizza oggi in un contesto storico profondamente mutato, tanto da far pronunciare all’arcivescovo Hilarion, Ministro degli Esteri del Patriarcato moscovita in visita all’allora Pontefice Benedetto XVI, le seguenti parole:

“Per noi è evidente che oggi la Chiesa ortodossa e quella cattolica non possono più essere separate come è stato in passato, ma al contrario essere alleate, aprirsi alla cooperazione. Davanti a noi si apre un campo vastissimo nel quale il Signore ci chiede di lavorare: il campo del mondo scristianizzato di oggi, nel quale riproporre la comune visione cristiana della famiglia, della procreazione, di un amore umano fatto non solo di piacere, di giustizia sociale, di una più equa distribuzione dei beni, di impegno per la salvaguardia dell’ambiente, per la difesa della vita umana e della sua dignità”.

Luigi Antonio Fino