Le conversioni forzate all’Islam e il silenzio dei “solidaristi professionisti”.

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L’attenzione della nostra opinione pubblica è come magnetizzata da eventi che con enfasi vengono, si diceva un tempo, sbattuti in prima pagina. Oggi, oltre alle prime pagine, abbiamo i Tg ed il tam tam dei social quali casse di risonanza e ridondanza. Questo circo mediatico ha fatto sì che salisse agli onori degli altari, non molto tempo fa, il passaggio all’islam di una ragazza rapita che, una volta “liberata”, indossando i colori del suo nuovo status spirituale sfoggiava un sorriso smagliante che rendeva difficile immaginare lo stato di cattività dal quale era stata sottratta.

Il sorriso di Aisha, questo il nome adottato da Silvia Romano dopo la sua “conversione”, non lo troviamo sul volto di Huma Younus, una quattordicenne cattolica rapita a Karachi (Pakistan) il 10 ottobre 2019, violentata, forzatamente convertita all’islam e obbligata a contrarre matrimonio col proprio rapitore.

Di questa nostra sorella, non un rigo, non una riflessione, non una risposta all’appello disperato lanciato dai genitori che si sono dovuti rivolgere alla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.

Huma Younnus non è la sola minorenne a subire la conversione all’islam con tutte le conseguenze connesse. E ciò nonostante in Pakistan sia vigente la Children Marriage Act, legge che prevede la detenzione nel caso di rapimento di minori al fine di matrimonio.

Un’altra quattordicenne che ha subito la stessa sorte è Maira Shabbaz. Il suo rapimento, sempre in Pakistan, è molto più recente ma il copione è il medesimo. Dopo il rapimento, avvenuto il 28 aprile del 2020, la ragazza è stata costretta ad islamizzarsi e a sposare il proprio sequestratore che in questo caso risulta essere già sposato con altra donna dalla quale ha avuto due figli.

L’agenzia di stampa Agensir, in merito a quest’ultimo caso, riferisce che il sequestratore, Mohamad Nakash, si è espresso nel senso che il “matrimonio con Maira è autorizzato dalla consuetudine islamica, la quale lo ritiene valido a condizione che la ragazza abbia avuto il primo ciclo” mentre l’avvocato Khalil Tahir Sandhu, incaricato dalla famiglia della ragazza, ha dichiarato che «in casi come questo quello che spesso vediamo è che, dopo due o tre anni, la ragazza viene restituita alla famiglia, quando ormai la lussuria è soddisfatta e ne hanno abbastanza di lei».

Casi come quelli di Huma Younus e Maira Shabbaz, in Pakistan sono più di mille all’anno. E dire che il governo di questo Paese è considerato islamista moderato.

Cosa aggiungere? Certamente ogni caso ha la sua storia. A noi non resta che solidarizzare con queste famiglie e, per quanto possibile, sostenerle nelle battaglie giudiziarie e diplomatiche intraprese. In più, un quesito torna e ritorna nelle nostre teste: come mai su questi casi non cade mai l’occhio dei solidaristi professionisti nostrani? A voi l’ardua sentenza.

Paolo Scagliarini