Le streghe gli dei e Bianca Garufi in Cesare Pavese 

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Non è facile misurarsi con Bianca Garufi. Non è affatto semplice raccontarla, cercando di percepirne gli elementi streganti. Quei sottosuoli dostoevskijani insiti in lei. Sovente evade dalla realtà, pur restando nel quotidiano, scavando in “quel gorgo muto” nel quale si era rinchiuso Cesare Pavese. È impossibile comprendere Bianca Garufi senza la figura di Cesare Pavese, che in lei predomina. Lo si avverte nelle poesie, nella quali convivono termini prettamente pavesiani, ma in special modo nel passaggio tra “Fuoco Grande” e “Il Fossile”.

Bianca prosegue il romanzo lasciato incompiuto a causa della morte di Pavese, mutuando dal poeta scrittore il linguaggio, il concetto di mito e di rito  e creando una straordinaria continuità tra il personaggio maschile e quello femminile. Leggendo “Il Fossile” non si avverte nessuna separazione tra la sua scrittura e quella di Pavese, rappresentanti due personaggi in una città, come Maratea, in cui si vive tutta la magia antropologica del Sud.

Bianca Garufi si sdoppia (divenendo a volte Cesare, per poi tornare nei suoi panni) nel proseguire l’alternanza dei capitoli di un romanzo che mette in scena una incredibile abilità di metamorfosi creativa e letteraria. Mi stupisco del fatto che la casa editrice Einaudi, presso la quale entrambi lavoravano, non abbia pensato di unire “Il Fossile” con “Fuoco Grande”, uno dei romanzi portanti di Pavese, la cui stesura era stata intrapresa poco dopo il suo incontro con Bianca Garufi a Roma. È grazie a Pavese se Bianca riuscirà ad analizzare il vocabolario e tutto il processo letterario  attraverso il cannocchiale di Jung. Pavese non era un freudiano. Egli scopriva i sottosuoli dell’anima alla maniera di Illich.

Bianca ha scritto diversi saggi sulla psicoanalisi dell’anima, allontanandosi dal concetto di “Totem e tabù”, dal complesso di Edipo, per soffermarsi sulla parola intesa come creatività e mai come relativismo. Non è soltanto la letteratura che entra in Bianca Garufi, ma anche tutto quel contesto appartenuto a Pavese.

In “Fuoco Grande” si incontra spesso la parola “rupe”, così come ne “Il Fossile” e nella sua poesia. Il concetto di rupe ha la sua origine nella visione saffica appartenente a una formazione greca in cui il senso del tragico e del suicidio è molto presente. La Garufi si dedicherà in seguito alla filosofia. Si laurea, infatti, in Filosofia specializzandosi in Psicoanalisi, molto probabilmente per sfuggire a quel senso del tragico nel quale si era tuffato Pavese.

Qualche mese prima che Pavese morisse, Bianca affida al suo diario quel senso di rammarico per non essere riuscita a venirgli in aiuto scrivendo: “Ora che sarei stata capace di aiutarti, non ti sei rivolto a me”. Pavese, nell’ultima notte vissuta all’albergo Roma di Torino, cerca diverse persone tra cui Natalia Ginzburg, ma non Bianca. Era evidente che la considerasse il suo “doppio”.

In “Fuoco Grande” e ne “Il Fossile” si assiste allo scardinamento della letteratura calviniana. Anche Bianca Garufi non amava Calvino, ed esattamente come Pavese, non sopportava Natalia Ginzuburg considerata una falsa moralista. Un legame stretto, il loro, nato all’interno di un processo letterario e analitico. La letteratura, in questo caso, assume una specificità enorme in quanto subentra un concetto che amo spesso richiamare, quello di “letteratura metafisica”. Pavese, nel romanzo “La casa in collina”, dà vita a un romanzo metafisico e Bianca Garufi con “Il Fossile” compie il medesimo percorso all’interno di una metafora dell’anima che diviene “metafisica dell’anima”.

Con Bianca Garufi non esiste una letteratura “pura” sulla quale la critica letteraria possa soffermarsi. Critica letteraria che non ha mai compreso né Pavese né la Garufi, perché entrambi erano “oltre”. Bianca Garufi è andata “oltre” lo stesso Pavese. Dopo averne assorbito la lezione, si è mossa in direzione di un contesto che lega letteratura e filosofia. Si laurea con una tesi su Jung, in un contesto psicoanalitico che confluirà in una visione psico-filosofica. Il senso del tragico legato al concetto di gorgo, rupe e morte, è centrale in Pavese e viene mutuato dal senso del tragico di Nietzsche, da lui tradotto. Un disegno della continuità pavesiana che la Garufi ripristina adottando “parole chiave” miranti a mettere in luce l’animo femminile. Non è, infatti, un caso che i principali personaggi pavesiani siano tutti femminili. Pavese ha scardinato un tipo di letteratura assegnando un ruolo specifico al personaggio femminile ad iniziare dal libro “Il carcere”, nel quale i due personaggi centrali sono Concia ed Elena, fino all’ultimo suo libro pubblicato in vita, “La luna e i falò”, che termina con il personaggio simbolico di Santa arsa viva. Qui il senso del mito è forte.

L’altro concetto che campeggia in entrambi è il concetto di fuoco alla quale viene data una importante interpretazione.  “La luna e i falò” conclude il ciclo pavesiano che verrà ripreso da Bianca Garufi ne “Il Fossile” attraverso termini ed espressioni quali: “fuoco”, “caminetto”, “legna che arde”. La lettura che va fatta è, quindi, di tipo psico-antropologico-letteraria. È questo il vocabolario estetico che penetra il sottosuolo della memoria. È impossibile comprendere Bianca Garufi senza conoscere il Pavese degli anni Quaranta. Il Pavese delle liriche de “La Terra e la morte”, aventi temi importanti presenti anche in “Fuoco Grande”. Nei “Dialoghi con Leucò” del ’47, Leucò è Bianca Garufi. Pavese scrive questo testo pensando a lei. Lo dimostra la dedica che le fa donandole il libro: “A Bianca, il mito, Circe”. La dea, la strega. Gli dei e le streghe. Bianca era vista in termini di magia, di alchimia. Pavese indica questi tre personaggi nella dedica: Bianca, Leucò e Circe. Tre nomi nei confronti dei quali ho dedicato diversi giorni di riflessione. Bianca è Bianca Garufi, ma è anche il senso di quella chiarezza “dell’uscita dal bosco bianco”. Leucò è la terminologia del chiaro. Circe è dea e strega allo stesso tempo. Il mito traspare da questi concetti che appartengono al senso della vita e della morte. Il sentimento del tempo è disarmonia. Un tempo che non è, perché vi è la spazialità dell’immaginario. Non si dà poesia senza mito. A mio avviso, la spazialità dell’immaginario resta il mito, il rito e la simbologia di una griglia di archetipi che fa della letteratura un mistero, una magia, un’alchimia.

Pierfranco Bruni