L’ideologia pro Azerbaijan serve una “polpetta avvelenata” all’ “Osservatore Romano”

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Il quotidiano ufficiale del Vaticano “L’Osservatore Romano”, ha recentemente pubblicato un articolo dedicato ad un excursus sui “monasteri di Khudavang, Ganjasar e Khatiravang”, in cui gli eccezionali monumenti armeni di Dadivank, Gandzasar e Khatravank, vengono falsamente presentati come patrimonio della fantomatica e mai esistita “Albania Caucasica”, o almeno mai esistita nei termini a cui fa riferimento l’autrice dell’articolo e i cui nomi sono cambiati nell’ortografia. La suddetta articolista — di cui non intediamo fare il nome in questa sede — descrive le sue visite in Azerbaijan e rivela di aver visitato il “Garabagh” (sic) identificando con questo nome spiritoso, distorito o quantomeno riduttivo il “Nagorno Karabakh” o “Artsakh”. Sarebbe proprio in quel contesto che chi firma l’articolo avrebbe fatto la conoscenza dei famosi monasteri di quella che ha falsamente descritto come “eredità albanese”.

È importante sottolineare che l’articolo è privo di qualunque fondamento scientifico e si basa puramente su punti di vista soggettivi e osservazioni personali. Inoltre, il titolo dell’articolo include nomi modificati in azero per monumenti armeni, facendo scorgere la propaganda di stato azera dietro la pubblicazione.

Varie istituzioni mondiali, tra cui la Fondazione Geghard, hanno affrontato da anni la questione dell'”albanizzazione” del patrimonio culturale armeno da parte dell’Azerbaijan. È, tuttavia allarmante che il meccanismo di appropriazione forzata del patrimonio armeno stia ora estendendo la sua portata a nuove piattaforme internazionali così note e conosciute come il quotidiano ufficiale della Santa Sede. Non vogliamo giungere a pensare che ciò sia dovuto – come qualcuno potrebbe essere spinto a pensare – alle profferte od oboli provenienti dal petrolio dell’Azerbaijan e ai suoi enormi investimenti nelle attività di strutture e organizzazioni internazionali. Vogliamo piuttosto credere ad una “polpetta avvelenata” capitata sulla scrivania della malcapitata articolista di turno. Infatti, da un lato, l’Azerbaijan sta creando artificiosamente l’immagine di uno Stato ‘”multiculturale e democratico”, mentre dall’altro sta “internazionalizzando” i meccanismi di appropriazione forzata del patrimonio culturale armeno e di, sempre più palese, falsificazione della storia.

Qualche mese fa, era stata organizzata in Polonia una mostra fotografica dedicata al cosiddetto “patrimonio albanese del Caucaso”, dove l’ambasciata azera era stata attivamente coinvolta. Si tratta di pericolosi precedenti per la distorsione dell’identità del patrimonio culturale armeno già polverizzato dagli azeri affinchè non ne resti alcuna traccia per la posterità. Studiosi di tutto il mondo, non solo armeni o filo armeni, esortano le principali organizzazioni scientifiche internazionali, istituzioni e media a non promuovere la campagna di propaganda anti-armena sponsorizzata dallo stato dell’Azerbaijan e nota all’interno dei processi di Armenofobia diffusa.

Ad ogni buon conto si vorrebbe chiedere all’articolista dell’ “Osservatore Romano” a quali fonti abbia fatto riferimento durante le sue “meditazioni” sulla storia del Caucaso. Forse alla pletora di storici tra cui il fantomantico direttore dell’Istituto per la riscrittura storica dell’Azerbaijan che pretende di ravvisare nella famiglia dell’autocrate azero, di volta in volta, un novello “Crociato che salverà il mondo” o un discendente della famiglia di Gesù di Nazareth o del Profeta Maometto o di Saladino il grande, a seconda dei contesti.

Questa azione giornalistica è tuttavia mirata e non casuale. Viene condotta tutte le estati contro l’Armenia da parte azera, da molti anni. Come quasi sempre accade le istituzioni armene propriamente dette, benché sollecitate da intelletuali di tutto il mondo si trincerano in un olimpico contegno. La parte armena sino ad ora ha voluto fare affidamento su una suggestiva interpretazione, particolarmente discreta, delle regole di non ingerenza spettanti alla diplomatizia. Purtroppo la controparte azera non usa solitmente queste finezze. In questo caso chi è direttamente interessato alle relazioni interstatali, previa consultazione con il proprio Ministero degli Esteri, è l’Ambasciatore armeno presso la Santa Sede S.E. Boris Sahakyan. Egli, lungi dall’aver potuto o dovuto prevenire la pubblicazione di questo articolo, potrebbe essere legittimato, invece, ad una azione formale di protesta a vario livello e di varia intensità, nei confronti dello stato ospitante. Al Signor Ambasciatore non manca l’esperienza e la capacità di relazione interpersonale, per questo lo incoraggiamo a far sentire la sua voce auotrevole e signorile di raffinato e determinante diplomatico di antico stampo. Su altro versante quest’oggi Sua Eccellenza l’Arcivescovo armeno Khajag Barsamian, in dovizioso articolo intitolato: “Albània Caucasica: la divulgazione non deve distorcere la storia”, pubblicato sull’ “Osservatore Romano” ha voluto esprimere il suo pensiero di rappresentante della Chiesa Apostolica Armena.

Carlo Coppola