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«La questione ambientale è ormai diventata un’emergenza a livello mondiale: aumento esponenziale dei rifiuti, piogge acide, desertificazione e accelerazione del dissesto idrogeologico, invasione delle plastiche in terra e mare, riduzione della biodiversità, incendi  dolosi dei boschi, deforestazione, consumo di suolo e cementificazione, inquinamento dell’aria, delle falde freatiche, dei corsi d’acqua, dei mari, alterazione del clima, e potremmo continuare a lungo. Senza poi contare i disastri dell’industria chimica come Seveso e Bhopal; quelli  delle centrali nucleari come Chernobyl e Fukushima, quelli delle acciaierie come l’ex ILVA di Taranto.

Tutti questi fenomeni non sono accidentali o marginali, ma sono la conseguenza necessaria di un modello di economia che guarda unicamente al profitto ed ha come paradigma la crescita illimitata. Ad un modello che, a ben guardare, affonda le sue radici in una visione del mondo antropocentrica, sorta dopo la lunga crisi dei secoli XIV e XV e affermatasi grazie alla filosofia di Cartesio e alla nuova scienza di Galileo, che furono «i creatori dell’interpretazione meccanica dell’universo», «quando l’uomo ha teoricamente visto il mondo come una macchina» (Ortega y Gasset).

Questo modello, com’è noto, è stato supportato da una tecnica prodigiosa: siamo ormai circondati da una tale quantità di oggetti artificiali, di macchine e di invenzioni che l’uomo si trova ad aver perso del tutto il contatto con la realtà naturale. Il  paesaggio artificiale si sovrappone a quello naturale,  la tecnosfera  ha preso ormai il sopravvento sulla biosfera. […]

D’altra parte, la tecnica non ci dona di per sé la felicità, né può donarcela. Se è vero che non c’è uomo né civiltà senza tecnica, è anche vero che la tecnica varia storicamente e dipende sempre dall’idea di benessere che si ha: «evidentemente il mondo è diverso per un commerciante e per un poeta. Dove questi si placa quello nuota a volontà; ciò che ripugna al primo, rallegra il secondo» (Ortega y Gasset). […] la scienza e le sue applicazioni tecnologiche non sono  in grado di determinare il contenuto della vita, non ci dicono se è bene bombardare una città o far fiorire il deserto. Chi decide che cos’è veramente necessario all’uomo, come diceva Gesù a Marta e Maria? La tecnica non può dirlo. Né tutto ciò che è tecnicamente possibile è desiderabile ecologicamente o giustificabile eticamente. […]

Insomma, non spetta alla tecnica definire il progetto di vita. Spetta piuttosto al filosofo, al poeta, al fondatore di religioni, al politico. La tecnica risponde sempre a un progetto di vita, ad una visione del mondo. Oggi non c’è dubbio che la tecnica sia orientata per lo più ad una produzione industriale esponenziale. Se mancano nuovi filosofi

e poeti, mistici e politici lungimiranti, a dominare è la tecnocrazia.

In questo contesto si situa a partire dagli anni ’70 del secolo scorso la nascita e la risposta alla crisi dell’ecologia profonda, il filone più radicale dell’ecologismo e, a nostro avviso, l’unica corrente di pensiero all’altezza dei tempi.

Le origini del movimento si fanno risalire al 1973 quando il filosofo norvegese Arne Naess distinse in un famoso articolo due forme di ecologia: quella superficiale (oggi, per inciso, la più diffusa) attenta a limitare i danni dell’inquinamento e a cercare di risolvere il problema dell’esaurimento delle risorse, ma senza mai mettere in discussione i pilastri del sistema: l’antropocentrismo, il materialismo, quell’idea di progresso, che sul piano economico si traduce nel concetto di crescita; e l’ecologia profonda che invece vuol mettere in discussione quei fondamenti, propone una visione biocentrica, organica, tendenzialmente spiritualista, valorizzando tutte le forme di vita e la biodiversità e auspicando un cambiamento profondo del paradigma dominante, che tenda verso l’equilibrio ecologico e non verso la crescita. Se per l’ecologia superficiale la soluzione della crisi ambientale si riduce ad una soluzione tecnica, per l’ecologia profonda la tecnologia non basta, occorre un profondo cambiamento di mentalità, l’ecologia è una questione di civiltà.

Tra gli autori dell’ecologia profonda un posto di rilievo spetta al poeta americano Gary Snyder, vincitore del premio Pulitzer per la poesia nel 1975. Snyder rappresenta pienamente e superbamente l’anima letteraria, poetica, mistica del movimento.

La presente antologia poetica vuol essere per l’appunto un omaggio a questo insigne poeta. Sul tema ambientale si sono cimentati una trentina di autori, accomunati da una notevole sensibilità verso la natura oltraggiata. Al di là della grande varietà di forme e della maggiore o minore resa poetica, mi pare che gli autori si muovano su tre direzioni fondamentali:

quella del rimpianto dei tempi andati, quando c’erano forme di vita sociale ed economica più sostenibili ecologicamente;

quella che con un termine di ascendenza biblica e profetica possiamo definire delle lamentazioni per l’oltraggio subito dalla natura a causa dell’incuria e delle malversazioni umane;

quella che esprime la voglia di maggiore consapevolezza ecologica, cercando di individuare le cause che conducono all’attuale processo di decadenza. […]»

Dalla Prefazione di Sandro Marano all’antologia di poesie L’isola di Gary

edizioni di Amazon Opera Indomita,

pp. 116, € 3,70