Monachesimo e Iconoclastia

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La partecipazione dei monaci al concilio di Nicea II (787)

Nel secolo VIII il repentino sviluppo nella venerazione delle icone causò una profonda crisi. Solo in questo periodo ebbe inizio un dibattito pubblico e ufficiale sull’icona –  seguito accuratamente da teologi e da quanti si reputavano tali – e di una dottrina teologica dell’icona che fornì, prima agli oppositori e poi ai difensori, i principi per legittimare teoreticamente le proprie ideologie.

La disputa iconoclasta, l’argomento più dibattuto della storia dell’icona[1], è tanto problematico da aver sviluppato un’ampia letteratura. Ogni sforzo per riportare tutti gli avvenimenti, a un unico movente, si è rivelato vano.

Numerose le cause: sovente le icone divennero solo pretesto di contese maturate tra Chiesa e Stato, centro e provincie, vertice e gruppi della popolazione di base. La corte e l’esercito da una parte e i monaci dall’altra impiegarono lotte in cui il limite del fronte si muoveva di continuo. In un primo momento, nelle province periferiche dell’Anatolia, comparvero gruppi eretici che minarono l’unità dell’Impero e spinsero il potere centrale ora ad arrendersi, ora a opporsi. Motivazioni economiche, poi, contribuirono a provocare l’esplosione e l’evolversi della contesa. Sin da principio intervenne nelle vicende anche l’apparato militare, sempre a sostenere chi governa. Nel momento in cui si sfogliano i documenti originali, ci si chiede per quale ragione furono proprio le icone a causare le dispute o perché queste si siano manifestate per loro mezzo. Su tutto ciò è possibile formulare solo supposizioni.

In tale contesto, di fondamentale importanza risultano gli Atti del concilio di Nicea II, per il loro essere documenti ‘veri’, realtà rarissima per il periodo della prima iconoclastia, pur nella difficoltà interpretativa cui si va incontro, sia a motivo di allusioni in essi contenute, che non siamo più in grado di cogliere, sia per le varie posizioni assunte dalle parti presenti, determinate da fatti che non conosciamo.

Al termine di un ampio e puntuale lavoro di investigazione rimane pur sempre insoluto l’enigma su cosa sia realmente accaduto e quale sia stata la posta in gioco.

Proviamo a esprimere qualche giudizio, ponendo in evidenza alcuni punti.

La rappresentanza monastica al Concilio, per imponenza di numero – più di un terzo dei vescovi presenti – e ruolo assunto, risulta certamente determinante nei lavori del sinodo.

Dall’analisi degli Atti risulta, infatti, che i monaci alla Seconda sessione accettano oralmente la sunodik£ del Papa[2]; alla fine della Quarta sessione firmano un breve testo dogmatico letto da Eutimio di Sardi e redatto certamente da Tarasio[3]; infine, chiedono e ottengono che gli igumeni facciano parte della delegazione che porterà l’Óroj ai sovrani, affinché essi l’approvino[4]. Ruolo dunque importante, ebbero i monaci sebbene nei documenti siano citati sempre dopo i vescovi e non sottoscrivano l’Óroj. Del resto, nelle sessioni alle quali intervengono, la loro partecipazione è molto abilmente dosata. Intervengono con moderazione sulla questione delle icone e solo per fornire testi che hanno tratto dalle loro biblioteche, apparendo così come custodi di libri. Dei sette igumeni che propongono alcune letture, cinque sono firmatari nell’elenco dei dieci igumeni della bozza della Dichiarazione finale,[5] a conferma della loro preminenza, uno è l’igumeno di Chenolacco – monastero in Bitinia, fondato da un familiare del patriarca Germano[6] – e l’ultimo rimane per noi sconosciuto. Costoro propongono per lo più testi agiografici[7], ma anche brani di Crisostomo[8] e dalla Storia ecclesiastica di Evagrio[9].

Alla fine della Quinta sessione, dopo l’esposizione di testi favorevoli alle immagini, degna di rilievo è la proposta avanzata dall’igumeno Saba di Stoudion al patriarca Tarasio: le icone siano ristabilite e i Cristiani facciano processioni con esse[10]. A seguito di ciò gli inviati di Roma propongono che un’icona sia installata nella sala sinodale. In tal modo, Saba, in questa importante fase del Concilio, priva Tarasio dell’epilogo che a lui spetta in quanto patriarca. Sembra emergere una rivalità tra i due uomini: Saba non apprezza l’elezione di Tarasio, come si deduce dal secco titolo «Tarasio, patriarca ecumenico»[11] che egli impiega nel nominarlo, contrariamente agli usi che richiederebbero almeno «Tarasio, santissimo patriarca ecumenico»[12] come avviene, invece, per Gregorio, igumeno di San Sergio. Questo attrito tra Saba e Tarasio appare evidente sin dalle prime sessioni del Concilio, a proposito della reintegrazione dei vescovi più compromessi nell’iconoclastia e in particolar modo di quanti hanno impedito che il Concilio si tenesse l’anno precedente a Costantinopoli[13].

Il cuore della discussione del Concilio verte proprio sulla soluzione da trovare per la riconciliazione dei vescovi iconoclasti, essendo già scontato l’esito dottrinale sul culto delle icone. I numerosi interventi dei monaci su questo argomento e il loro silenzio sul resto provano che tale questione è la ragione della loro presenza al Concilio.

La posizione dei monaci è stranamente contraddittoria: accettano con calore la reintegrazione dei primi tre vescovi iconoclasti e conducono una strenua battaglia contro la reintegrazione dei successivi. Ora, a riguardo dei canoni ecclesiastici, la posizione degli uni e degli altri è identica. Come interpretare che i monaci affermino, nel primo caso «Come i sei santi concili ecumenici accolsero coloro che si erano convertiti dall’eresia, noi pure li accogliamo»[14], e producano, nel secondo, una tesi contraria? L’opposizione dei monaci alla reintegrazione dei vescovi iconoclasti è, dunque, selettiva: non si tratta, quindi, di una questione di principio, ma di persone; sfuggono le vere ragioni che fondano la clemenza dei monaci in un caso e il loro astio nell’altro. I monaci accettano che i dissidenti siano accolti nella comunità se si pentono, ma rifiutano che siano reintegrati nei propri seggi.

Il tono del dibattito è essenzialmente formale, le loro armi sono i testi patristici e canonici prodotti per l’una o per l’altra parte. Questi documenti, scelti per la loro familiarità con la situazione presente, permettono una discussione che si svolge sempre su due livelli: apparentemente si discute su testi vecchi di alcuni secoli, ma in realtà si parla della situazione attuale.

Due sono i quesiti che emergono durante la discussione: si può restituire la sede ai vescovi eretici? Si possono accettare i vescovi ordinati dagli eretici? La questione riguarda solo apparentemente i sette metropoliti, in realtà investe tutti i vescovi presenti ed è, naturalmente, Saba a porla[15].

La presenza dei monaci al Concilio è dettata dalla volontà di integrarli nell’istituzione ecclesiastica. Questa volontà può essere dell’imperatore, se i monaci sono già presenti a Hieria, e certamente del patriarca a Nicea II. Si tratta, tuttavia, di stabilire su di essi un fermo controllo e di impegnarli, in quanto corpo, nella politica ecclesiastica, sotto l’autorità dell’imperatore – con Costantino VI – sotto l’autorità del patriarca – con Tarasio – il quale vuole ritrovare la sua posizione di capo della Chiesa davanti al potere imperiale.

I monaci, a Nicea II, come reagiscono a questa volontà di integrazione? Innanzitutto, custodiscono la loro specificità: si noti che dichiarano apertamente come il Concilio sia un’incombenza dei vescovi e non loro. Infine, utilizzano il Concilio come una macchina da guerra contro i vescovi. Le cause di questa ostilità e delle sue sfumature, poiché non tutti i vescovi al Concilio sono presi di mira, sono poco chiare. La discussione del caso di Gregorio di Neocesarea ci mostra alcuni metropoliti agenti della politica imperiale nelle loro diocesi, e quindi responsabili della persecuzione. Il terreno che scelgono i monaci per manifestare la loro ostilità incuriosisce: non si battono sul campo dogmatico delle icone, dove avrebbero armi decisive, ma su quello disciplinare. Quale il motivo? Si può supporre che non abbiano la stessa visione del patriarca e che perdano di vista l’obiettivo principale: ristabilire, cioè, il culto delle icone, a favore di conflitti tra le persone. L’ostilità tra Saba e Tarasio, per esempio, ha probabilmente le sue radici nell’elezione del Patriarca, come suggerisce Teodoro Studita[16]: il rancore nato da una speranza delusa spiega probabilmente la polemica di Saba. Molte altre cause devono aver concorso sia nell’ostilità dei monaci verso i vescovi sia nella divisione del t£gma monastico in partiti ostili, quali i precedenti nella crisi iconoclasta, i legami familiari e di clientela, le relazioni tra i monasteri (c’è un’opposizione tra Santa Montagna e capitale, cioè Bitinia e Costantinopoli, per esempio?). Tutto questo, però, è difficile da ricostruire.

Di certo sappiamo che il patriarca Tarasio vuole la Chiesa tutta con lui a capo, unita al potere imperiale; invece, all’indomani del Concilio, si delinea una situazione in cui il potere imperiale è alla testa di vescovi, che hanno abbandonato l’iconoclastia a malincuore; e agli antipodi a tale posizione si trova quella dei monaci capeggiati dall’igumeno di Stoudion che hanno scelto di portare la lotta sul campo disciplinare.

Del resto, i monaci non hanno motivo di essere soddisfatti del modo in cui si è concluso il Concilio, perché l’imperatrice ha demolito gli sforzi di Tarasio per onorarli, ordinando inaspettatamente uno spostamento improvviso dei vescovi a Costantinopoli, dopo la Settima sessione, convocando una seduta straordinaria il 23 ottobre al Palazzo Magnaura, cui i monaci non sono invitati, dove conferma solennemente l’Óroj davanti al popolo e all’esercito[17].

Questa insoluta situazione politica ed ecclesiastica ha fatto sì che l’eresia iconoclasta ritornasse alla ribalta. In questo periodo (813-842)molti monaci subirono terribili persecuzioni. Richiamiamo alla memoria san Niceta, che fu esiliato insieme con tre dei suoi discepoli; san Michele il Sincello, che fu segregato nella prigione del pretorio, dove rimase per sette anni in condizioni disumane, con i piedi stretti nei ceppi, completamente isolato, divenendo del tutto cieco e gobbo; i suoi due compagni, san Teodoro e san Teofane, che furono esiliati dopo aver subìto torture e alla fine marchiati a fuoco sulle loro fronti con frasi oltraggianti.

Campione dell’ortodossia in questo periodo è stato l’igumeno di Stoudios, Teodoro, che fece udire la sua voce con opere che completavano la teologia nicena. In molte lettere, nelle sue tre Confutazioni (Antirrhetikoi) contro gli iconoclasti e in tanti trattati minori sull’argomento, Teodoro tentò di sconfiggere la problematicità attinente alla concezione dell’umanità di Cristo, sovente espressa col termine «natura umana» assunta nella sua totalità. La preoccupazione del nestorianesimo aveva impedito sino ad allora a molti teologi bizantini di vedere in Cristo un uomo, perché «un uomo», che ha in sé una coscienza umana individuale, sembrava a essi indicare un’ipostasi umana separata. Teodoro affronta con successo la problematicità, facendo appello alle categorie aristoteliche. L’umanità per Teodoro esiste unicamente in esseri umani concreti, e Gesù era uno di questi. Gli iconoclasti, inoltre, continuavano a dichiarare che Cristo, in virtù dell’unione fra la divinità e l’umanità, fosse incircoscrivibile, e che nessuna immagine di lui fosse perciò ammissibile; ma per Teodoro un Cristo incircoscrivibile sarebbe un Cristo incorporeo. L’ipostasi è la fonte ultima dell’esistenza individuale e personale, che in Cristo è a un tempo divina e umana, quindi, per Teodoro un’immagine può essere soltanto l’immagine di un’ipostasi, perché l’immagine di una natura è inconcepibile.

Si deve attendere ancora cinquantasei anni perché sia ristabilita in modo definitivo l’Ortodossia, quando l’imperatrice Teodora convocherà nel marzo 843 a Costantinopoli un sinodo che riproporrà i canoni dei sette concili ecumenici precedenti e dichiarerà legittimo il culto delle icone.

La vittoria della venerazione dell’icona offre una visione diversa dell’Impero, della Chiesa e della società bizantina, in modo particolare con san Teodoro lo Studita, che formula un’ideologia tale da rendere il monachesimo stabile ancora per lunghissimi anni.

Antonio Calisi

A. Calisi, Monachesimo ed iconoclastia. La partecipazione dei monaci al concilio di Nicea II (787), Società editrice Nicholaus, Bari 2011, pp. 97.


[1] Della enorme produzione letteraria sull’argomento, offriamo solo una scelta, rimanendo nello spazio delimitato degli argomenti storici: Cf. A. GRABAR, L’iconoclasme byzantin. Dossier archéologique, Paris 1957; H. BREDEKAMP, Kunst als Medium sozialer Konflikte. Bilderkämple von der Spätantike bis zur Hussitenrevolution, Frankfurt am Main 1975; A. BRYER e J. HERRIN, (a cura di), Iconoclasm. Papers given at the Ninth Spring Symposium of Byzantine Studies, Univ. di Birmingham 1975, Birmingham 1977; P. SPECK, Kaiser Konstantin VI. Die Legitimation einer fremden und der Versuch einer eigenen Herrschaft, München 1978; R. S. CORMACK, Writing in Gold. Byzantyne Society an Its Icons, London 1985; H. G. BECK, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München 1959; G. B. LADNER, The Concept of the Image in the Greek Fathers and the Byzantine Iconoclastic Controversy, in «Dumbarton Oaks Papers», 7, 1953, pp. 1-54; J. KOLLWITZ J., Bild III (christlich), in«Reallexikon für Antike und Christentum II», Stuttgart 1954, pp. 318-341; K. WESSEL, Bild, in «Reallexikon zur byzkanthinischen Kunst», I, 1966, pp. 616-662.; L. BARNARD, The Graeco-Roman and Oriental Background of the Iconoclastic Controversy, Leiden 1974; K. KCHWARZLOSE, Der Bilderstreit, Gotha 1890; P. SCHREINER, Legende und Wirklichkeit in der Darstellung des byzantinischen Bilderstreits, in «Saeculum», 27, 1976, pp. 165-179; J. IRMSCHER, a cura di, Der byzantinische Bilderstreits, Leipzig 1980.

[2] Questa accettazione corrisponde alla lista dei 10 igumeni con a capo Saba, MANSI XII, col. 1111.

[3] Ci sono le firme che formano la lista dei monaci, Ibidem, coll. 152-156.

[4] Cf. Ibidem, col. 408.

[5] Essi sono: Greogorio di Ormisda (n. 2 della lista; MANSI XIII, col. 57), Eustazio di Massimino (n. 4; MANSI XIII, col. 60), Simeone di Koras (n. 5; MANSI XIII, col. 68), Giuseppe di Eraclea (n. 8; MANSI XIII, col. 73), Gregorio di Giacinto (n. 10; MANSI XIII, col. 189).

[6] Cf. JANIN, La Géographie ecclésiastique de l’Empire Byzantin, Partie I: Le siège de Constantinople et le patriarcat œcuménique. I: Les églises et les monastères, Paris 1969, pp. 189-190.430.

[7] Essi sono, nell’ordine delle letture al concilio: 1. Ekphrasis a Eutimio di Calcedonia di Asterio di Amasea (MANSI XIII, col. 16) portato da Tomaso di Chenolacco; 2. Miracoli di Ciro e Giovanni di Sofronio di Gerusalemme (MANSI XIII, col. 57) portato da Gregorio di Ormisda; 3. Prato Spirituale (MANSI XIII, col. 60) portato da Eustazio di Massimino; 4. Vita di San Simeone Stilita il Giovane della Montagna Ammirabile (MANSI XIII, col. 73) portato da Giuseppe di Eraclea.

[8] Cf. MANSI XIII, coll. 8-9.

[9] Cf. Ibidem, coll. 190-192.

[10] Cf. Ibidem, col. 200.

[11] Ibidem, XII, col. 1111.

[12] Ibidem; Ibidem, vol. I, p. 123.

[13] Cf. Ibidem, coll. 999. 1018.

[14] Ibidem, col. 1015.

[15] Cf. Ibidem, col. 1034.

[16] Cf. THEODORUS STUDITA, Epistularium Lib. I; (PG, 99, 1104).

[17] Cf. MANSI XIII, coll. 414-418.