Mr. me
Tra avanguardia e ironico realismo si muove la poesia di Maurizio Evangelista, in questo testo, Mr. me (Arcipelago Itaca, 2022, pp. 62), che è risultato vincitore della settima edizione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago Itaca” per le raccolte inedite di versi non opera prima.
L’autore, che è nato a Terlizzi (Bari) e risiede a Bisceglie, ha già al suo attivo altre due raccolte di versi e dal 2010 è direttore artistico e organizzatore, insieme alla poetessa Teodora Mastrototaro, dell’evento “Notte di Poesia al Dolmen”, che sta ottenendo un crescente successo di pubblico e di critica.
Quel che subito colpisce il lettore di questa silloge è la sua compatta architettura. Il poeta infatti mette in scena in quarantotto stanze d’albergo precedute da un “check in” e seguite da un “check out” i «plurimi e postumi teatranti di una vicenda umana», come osserva Alessio Alessandrini nella sua puntuale motivazione del premio, riportata in appendice al volume.
Cinquanta istantanee in bianco e nero, cinquanta brevi monologhi, cinquanta scorci di vita, in cui il poeta, come in uno specchio, riflette se stesso oltre che gli uomini e le donne del nostro tempo smarrito. «Il misterioso “Mister me”, volutamente e ironicamente minuscolo, è uomo e donna, è padre e madre, è amato e amante, è vergine e madonna, prostituta e premaman» (Alessio Alessandrini).
Tutte le vicende sono comunque descritte con un filo d’ironia, che smussa quella che potrebbe altrimenti sembrare drammaticità. Prendiamo ad esempio la composizione “Stanza 419”:
«mi scopri coperta
e sto ferma
come il sapone
sul lavandino.
non c’è fretta amore, ti dico
posso morire
nelle mani di un altro».
Od ancora la “Stanza 407”, dove un cliente entrato nel ristorante che sta in chiusura deve accontentarsi di un’insalata e di un po’ di frutta da masticare lentamente (per illudersi di aver mangiato) e conclude:
«il tempo da sparecchiare
il tempo per dire
cameriere ho ancora fame».
Ci sono in questa galleria le fantasie erotiche come quelle dell’adolescente nella “Stanza 119” e c’è la prostituta colta nella sua perduta umanità nella “Stanza 105”:
«sono quella che resta dopo l’amore.
dopo un vestito con i tacchi che ballano soli.
sono gli occhi sulle strade percosse
le gambe le mani che non voglio più dare.
sono quella che guarda
una piastrella precisa in mezzo a milioni.
quella senza indirizzo
quella che apre i portoni.
la pazza
che posa stanca sulla sedia
con una data precisa di scadenza».
Ci sono mariti e mogli spenti nella quotidianità come quelli descritti nella “Stanza 127” ed amanti come quelli nella “Stanza 107”, che forse non sanno più comunicare (come indica quell’aggettivo, “drammatica”, riferito alla luce pomeridiana):
«lui mi afferra e mi dice,
il cielo sta bene con le tue scarpe della domenica.
è vero, gli dico
le indosso solo per te.
in questa luce alta e drammatica
che filtra un pomeriggio».
E poi ci sono padri e figli, mariti e mogli, illusioni e delusioni. Ci resta impressa la figura del padre che non prende sonno pensando alla figlia data in sposa ma infelice nella “Stanza 103” e il tedio di vivere di una coppia nella “Stanza 121”:
«aspetto che la cena finisca
e la gente salga in piedi sui tavoli.
attraverso uno stadio
dopo un grande concerto
e per tutta la sera penso a lui
che mi lancia un’occhiata sorpresa
e mi dice, mi annoia la vita degli altri».
Né mancano momenti di tenerezza espressi liricamente come nella “Stanza 303”:
«in questa stanza sono nudo
e tutti quelli che amo sparsi
come briciole della colazione.
a me basta raccoglierli con le dita
per sentirne la mancanza».
Non sai, alla fine della lettura, se il poeta ha parlato di sé o degli altri, per sé o per gli altri. Ha attraversato la notte, un’umanità disorientata e sofferente, e non ha più paura di continuare a vivere nel giorno. Come scrive nei versi finali di “Check out”:
«la notte non ti vuole indietro
e il giorno di cosa potrebbe aver paura».
Sandro Marano