Ospedale da campo 026
«Ozio dolce dell’ospedale!
Si dorme a settimane intere;
Il corpo che avevamo congedato
Non sa credere ancora a questa felicità: vivere.
Le bianche pareti della camera
Son come parentesi quadre,
Lo spirito vi si riposa
Fra l’ardente furore della battaglia d’ieri
E l’enigma fiorito che domani ricomincerà.
Sosta chiara, crogiuolo di sensi multipli,
Qui tutto converge in un’unità indicibile;
Misteriosamente sento fluire un tempo d’oro
Dove tutto è uguale :
I boschi, le quote della vittoria, gli urli, il sole, il sangue dei morti,
Io stesso, il mondo,
E questi gialli limoni
Che guardo amorosamente risplendere
Sul mio nero comodino di ferro, vicino al guanciale.»
Il mio primo incontro con la poesia di Ardengo Soffici avvenne al liceo classico grazie ad un’antologia che riportava questo suo testo intitolato Ospedale da campo 026. L’immagine mediterranea di quei gialli limoni, simbolo di forza ritrovata nella convalescenza, di gioia di vivere, di “un tempo d’oro”, si impresse profondamente nel mio animo e mi rivelò un modo di fare poesia genuino, fresco, lontano dall’artificio e dalla retorica di D’Annunzio o di Montale.
Questa poesia fa parte di quei «bei versi germogliati dalla prosa del Kobilek», che era il giornale di battaglia pubblicato dall’autore nel 1918, «tragicamente allegri nella loro indubbia freschezza e novità lirica» (Mario Richter, Introduzione al carteggio Papini-Soffici, Roma, 2002). Queste poesie furono poi raccolte nella sezione Intermezzo del volume Marsia e Apollo edito da Vallecchi nel 1938, che raccoglie l’intera e non ingente produzione poetica di Soffici: le poesie giovanili, i Bïf§zf+18 Simultaneità e Chimismi lirici del 1915, le poesie posteriori ad Intermezzo.
Le poesie di Intermezzo, tra cui la celebre Via dedicata all’amico Palazzeschi, segnano il passaggio di Soffici dal futurismo al neoclassicismo, il cosiddetto “ritorno all’ordine”. Analogo processo si registra nella sua pittura dove il cubismo/futurismo lascia il posto ai paesaggi dell’amata campagna toscana.
Ma, a ben guardare, non c’è in Soffici uno iato tra i due momenti dell’avanguardia e del ritorno all’ordine, tra il periodo “anarchico” e quello “fascista”: il suo “anarchismo” era piuttosto aristocratico ed esistenziale, era meno utopismo che insofferenza al vecchio e sclerotizzato mondo politico e il suo “fascismo” era piuttosto popolare e comunque mai scevro di spirito critico.
Scrive, non a torto, Aurelia Accame Bobbio: «Rifiutando la base materialistica il suo richiamo all’ordine tendeva a fondarsi già prima dell’avvento del Fascismo al potere su quei valori tradizionali della civiltà italiana dalla religione alla famiglia, dall’economia prevalentemente agricola all’arte rinascimentale, valori che la politica del Regime pareva assecondare».
L’uomo del Poggio, come viene definito Soffici per la sua scelta di non vivere in città, può senz’altro considerarsi un «classico della modernità» (Luciano De Maria).
Sandro Marano