Restituiamo il pedagogista alla comunità scolastica educante

Uno dei problemi che la nostra società stenta ad affrontare è quello educativo-scolastico che, sempre più sottratto alle famiglie e sempre più delegato al Ministero, passa in second’ordine ed anzi è sacrificato rispetto ad altri problemi quale l’inquadramento dei precari è soltanto quello più evidente.

Un individuo si afferma autonomamente e criticamente rispetto all’ambiente sociopolitico di appartenenza? Si adegua ai canoni della realtà sociale? Apprende sintetizzando abilità personali e capacità di relazione con gli altri?

A queste domande rispondono i saperi dell’educazione che affidano la loro scientificità al patrimonio di conoscenze relative alla natura della mente umana e ai meccanismi di apprendimento, ai metodi e agli strumenti di progettazione pedagogica, al controllo dei risultati effettivi dell’insegnamento, ai processi formativi che abbracciano la dimensione assiologica, psichica e sociale dell’educando.

Ferrante Aporti, Giovanni Bosco, Adolphe Ferriere, Ovide Decroly, Eduard Claparede, John Dewey, Rosa e Carolina Agazzi, Maria Montessori, Loris Malaguzzi, Zygmunt Bauman, Edgar Morin, Paul Watzlawick, Carl Rogers… sono solo alcuni dei mentori, dei modelli pedagogici e di vita, degli umanisti che hanno ispirato scelte formative che orientano azioni educative.

Ora “abito i loro mondi”: sono cresciuta nella scuola dell’Ermitage; ho giocato negli oratori coi bambini a caccia dei paradigmi di un’educazione funzionale; ho conosciuto una “scuola su misura”; ho strutturato attività di osservazione per una pedagogia sperimentale; ho rivoluzionato la metodologia educativa, superando la  tradizionale separazione tra tecnica e umanesimo; ho stimolato l’esperienza focalizzando l’attenzione sui bisogni concreti del bambino; ho trasformato i bambini in piccoli collaboratori scolastici capaci di prendersi cura della loro nicchia ecologica; ho reso la scuola amabile, operosa, vivibile, documentabile, comunicabile, luogo di ricerca e di apprendimento, di ricognizione e di riflessione, a garanzia del benessere di bambini, insegnanti e famiglie; ho fatto del gioco uno spazio di ricezione sensomotoria e di sviluppo prossimale, una palestra sociale e solidale, un propulsore di abreazione; ho utilizzato l’insight, le mappe concettuali, il modeling per costruire gli apprendimenti; ho sollecitato istinti, pulsioni e riflessi alla base della motivazione, attraverso il mastery e il cooperative learning, il peer to peer, il circle time, il role playing, il project menagement; ho esaminato il funzionamento cognitivo del singolo, osservandone gli stili di apprendimento e le intelligenze di Gardner; ho fatto del pedagogista un’educatore alla relazione, un educatore competente, abile e riflessivo, capace di ripensare costantemente al proprio agire in un’ottica di pedagogia critica e matacognitiva.

È vivido il messaggio che giunge dai precettori della pedagogia attiva e risuona con veemenza dal passato: “saper stare nel processo evolutivo”, accettandone i cambiamenti, è prerogativa di costruzione di “differenti luoghi” in cui fare esperienza di apprendimento, in cui poter mantenere in vita il “diritto alla scuola del ben-essere” degli educandi, costuttori di dinamiche sociali che si consumano nella condivisione della dimensione spaziale, temporale, dei saperi, spirituale, emozionale, affettiva, corporea, relazionale.

L’Educere, il “tirar fuori” dell’atto educativo è a partire dal corpo, un corpo che parla muovendosi e interagendo con altri corpi, un corpo che esprime. “Mettere fuori” per “costruire dentro”. Attivare il pensiero critico  per creare collegamenti e costruire nuovi saperi.

La scuola come luogo di intrattenimento ha fallito, la produzione ingente di materiale didattico per giustificare il proprio operato ha fallito, la folle corsa ai collegamenti cronometrici ha fallito. L’attenzione alla performance ha aumentato il senso di inadeguatezza e alimentato l’ansia.

La “testa ben fatta” di Morin, ricordiamolo, non è la “testa ben piena”. Non può esistere processo educativo senza relazione fatta di gesti, di silenzi, di incoraggiamenti, di dubbi, di scoperte, di errori, di esperienze.

Allora come si può costruire un ponte tra gli educatori, i ragazzi e le famiglie?

Possiamo strutturare percorsi educativi condivisi, in termini di sostegno alla genitorialità stanca e smarrita. Possiamo condividere su piattaforma indicazioni per alleggerire la mole di lavoro, pratiche da intraprendere per rafforzare le autonomie, attività che alimentano l’immaginazione e la curiosità. Possiamo attivare le potenzialità dell’ambiente casalingo. Possiamo costruire spazi di ascolto per accogliere bisogni di figli e genitori.

Possiamo restituire il pedagogista alla comunità scolastica educante.

Il pedagogista è lo specialista dei processi educativi e della formazione, capace di leggere e comprendere meglio di altre figure specialistiche, i trend di cambiamento socio culturali oltre che scolastici e interpretarne le esigenze educative e formative.

Egli individua e articola dunque le modalità operative da attivare nella direzione indicata dalla lettura della complessità (conoscenza, monitoraggio, analisi di partenza), predispone le risorse e gli strumenti necessari e disponibili, elabora piani d’intervento in campo educativo e didattico, nella formazione sia dei docenti che dei genitori (sviluppo delle risorse umane), ricerca e sperimenta nuove modalità didattiche (sperimentazione, azione ricerca) e offre consulenza pedagogica ai docenti e alle famiglie (sostegno e gestione delle competenze genitoriali).

In quest’ottica l’azione del pedagogista è anzitutto quella di costruire all’interno del sistema “scuola” buone prassi d’inclusione e sostenere un processo di costruzione non come risposta all’emergenza, ma come sistema che opera in modo continuativo, per favorire uno spazio “scuola” accogliente dove gli alunni possono essere tutti comunque accolti a prescindere dalle loro abilità misurate secondo il paradigma fuorviante di “ciò che manca” (in nome di una pretesa standardizzazione delle capacità), ma piuttosto di “quello che c’è e ci potrebbe essere”, cioè delle loro potenzialità.

“Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che suona la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica. ..” (Daniel Pennac, «Diario di scuola»)

                       Roberta Panuzzo

                                                              Pedagogista, Formatrice, Gestalt Counselor