S. Giovanni Crisostomo e la Divina Liturgia

San Giovanni Crisostomo (Antiochia di Siria, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), fu arcivescovo di Costantinopoli. È noto per le sue potenti omelie, per la sua capacità di parlare, per la sua denuncia degli abusi commessi dai capi politici ed ecclesiastici del suo tempo e per le sue pratiche ascetiche. Il suo zelo e il suo rigore furono causa di forti opposizioni alla sua persona. Dovette subire un doppio esilio e durante un trasferimento morì. Grazie alle sue doti retoriche gli fu dato il soprannome di Crisostomo (in gr. χρυσόστομος, chrysóstomos, letteralmente «bocca d’oro»), titolo definito per la prima volta nella «Costituzione» di Papa Vigilo nel 553.

Come filosofo e teologo, Giovanni riecheggia e trasferisce efficacemente nell’omiletica i temi della tradizione patristica greca e soprattutto della scuola antiochena. La sua personalità è quella di un uomo innamorato della morale, vissuta come «amore in atto», desideroso di riformare la vita cristiana, secondo l’ideale delle primitive comunità cristiane.

All’epoca di san Giovanni Crisostomo la Liturgia iniziava con l’ingresso del vescovo nel tempio e il dono della pace al popolo: «Il padre (vescovo), entrando qui (nel tempio), non sale sul suo seggi senza aver prima augurato la pace a tutti!»[1]. Il popolo ricambiava l’augurio ricevuto dicendo: «E allo Spirito tuo». Venivano dopo tre letture bibliche: una presa dai profeti, una dagli scritti apostolici e una dai Vangeli. Finite le letture, il vescovo illustrava la Parola di Dio; in seguito si pregava per i catecumeni e per i fedeli penitenti.

Una volta mandate via queste persone, le porte della chiesa venivano chiuse. Era il momento delle preghiere dei fedeli, il grande ingresso e del bacio dell’amore. Seguiva l’anafora, con il canto dell’inno di vittoria, le parole di Cristo l’invocazione, epiclesi, nello Spirito Santo. La liturgia proseguiva con le intercessioni per i fedeli, il Padre Nostro, la Comunione, il ringraziamento e il commiato dei fedeli.

Giovanni Crisostomo, come Basilio, compilando la Divina liturgia ha utilizzato antiche preghiere liturgiche. Alcune preghiere, nondimeno sono state scritte sin dall’inizio da lui. Il suo biografo Giorgio di Alessandria riferisce che, quando il santo era a Cucusa in Armenia, ordinò sette vescovi e molti presbiteri per i bisogni della Chiesa in quel luogo, «stabilendo per essi anche regole per la salmodia, consegnando adesso, altresì, la divina mistagogia»[2].

Il cuore della liturgia è formata da una sequenza di orazioni che ci sono state tramandate fondamentalmente nella forma in cui le proferiva san Giovanni Crisostomo quando era vescovo a Costantinopoli. In riferimento al loro argomento specifico e fino alla loro stessa precisa formulazione, questi testi appartengono palesemente alla modalità di scrittura che rimandano alle opere di san Giovanni Crisostomo.

La liturgia di san Giovanni Crisostomo nella sua forma odierna presenta aggiunte successive: l’inizio differente (VIII secolo), il trisagio e il simbolo di fede (V secolo), l’inno O figlio unigenito (Ho monoheghenes), l’inno cherubico e lo zéon (VI secolo), la soppressione della lettura tratta dai libri profetici. Similmente, nell’VIII secolo la preparazione dei Santi Doni (Proskomidi) è stata anticipata prima dell’inizio della liturgia.

Argomentando sul servizio sacerdotale all’altare, san Giovanni Crisostomo ci riferisce senza intenzione, le proprie esperienze liturgiche.

Il vero celebrante della Divina liturgia è Cristo: Colui che ha celebrato l’Eucaristia «durante quella cena anche oggi opera lo stesso miracolo. Noi abbiamo l’ordine di ministri, ma è lui che santifica e trasforma le offerte»[3]. Il celebrante, offrendo se stesso a Cristo, diviene strumento di Cristo, sta al posto di Cristo.

Il sacerdote, spiega san Gregorio il Teologo, si trova in compagnia degli angeli, glorifica Dio con gli arcangeli, eleva i sacrifici all’altare dal cielo, officia con Cristo. E prosegue: «Io so di chi siamo ministri, dove ci troviamo e dove ci dirigiamo»[4]. Il sacerdote è sulla terra e si spinge nel cielo. Sta tra terra e il cielo, tra l’uomo e Dio: «Il sacerdote sta in mezzo tra Dio e la natura umana, facendo scendere verso di noi i benefici che provengono di lì e innalzando fino a lì le suppliche che nascono da noi»[5]. La celebrazione della Divina liturgia pone il celebrante nel cielo: «Il trono del sacerdote è situato nei cieli»[6], scrive san Giovanni Crisostomo. Perché, «quando il sacerdote invoca lo Spirito santo e compie il sacrificio tanto terribile ed è a contatto continuamente col comune Signore di tutte le cose, dimmi, in quale ordine lo porremmo? Quale purezza e quale pietà non cercheremo da lui?»[7]. Dal sacerdote si pretende una santità celestiale, perché sia esecutore in un’opera che Dio non ha assegnato nemmeno agli angeli.

Davanti all’altare san Giovanni Crisostomo viveva il mistero dell’Amore di Dio, accogliendo dal cielo l’Amore divino lo donava ai suoi figli sulla terra. La sua vita la sua parola, il suo martirio sono di conseguenza il migliore commento della Divina liturgia che egli potesse dare, poiché la Divina Liturgia, ossia Gesù Cristo, era la sua vita e la sua vita era una continua liturgia eucaristica che egli elevava a Dio.

La Divina Liturgia è il compendio di tutta l’economia della salvezza

Gli avvenimenti realizzati meravigliosamente da Dio per ricondurre tutta l’umanità, dopo la caduta nel peccato originale, nel suo Regno e renderlo nuovamente suo familiare, sono definiti nel loro insieme divina economia: «L’economia di Dio e nostro Salvatore, riguardo all’uomo, consiste nel richiamarlo dalla sua condizione di decadimento, nel ricondurlo alla familiarità di Dio dallo stato di alienazione causato dalla disobbedienza»[8]. Nella Divina liturgia noi viviamo nello Spirito Santo questa economia compiuta in Gesù Figlio di Dio per la nostra salvezza, tributando gloria, lode e ringraziamento a Dio Padre. San Giovanni Crisostomo ci rammenta: «I misteri pieni di doni di salvezza che celebriamo in ogni riunione liturgica sono chiamati “eucaristia”, cioè ringraziamento, perché sono il memoriale dei molti benefici ricevuti e presentano la manifestazione più elevata della provvidenza di Dio»[9].

Nella Divina liturgia il credente rivive questo mistero che «riassume figuralmente l’intera legge (della Provvidenza)»[10] e nei segni misterici, sperimenta la sua realizzazione. Per questo motivo alla fine il celebrante dice: «È compiuto è terminato, o Cristo Dio nostro, il mistero della tua economia»[11].

Il mistero della economia divina si è rivelato contemporaneamente al peccato di Adamo e Dio, amico degli uomini «vide subito quant’è era successo (la caduta) e la grandezza della piaga, e si affrettò a procedere alla cura perché essa, allargandosi, non si convertisse in una ferita inguaribile… Nemmeno per un istante cessò, mosso dalla sua bontà, di provvedere all’uomo»[12]. Con azioni straordinarie e attraverso i profeti, Dio disponeva l’umanità a prendere parte alla totalità della sua vita e del suo amore.

Molti sono gli avvenimenti e gli annunci profetici dell’Antico Testamento che simboleggiano esplicitamente il grande mistero del sacrificio eucaristico. Il primo è sicuramente il dono del pane e del vino fatto da Melchìsedek re di Salem ad Abramo (cf. Gn 14,18-20). Come afferma san Giovanni Damasceno, Melchìsedek «era figura ed immagine del vero sommo sacerdote Cristo»[13]. Egli, «mosso da spirito profetico, avendo compreso che l’oblazione futura sarebbe stata presentata per le genti, prestava culto a Dio con pane e vino, imitando il Cristo venturo»[14]. Nello Spirito Santo, Melchìsedek richiama quello che non era ancora compiuto in cui la sua offerta è imitazione dell’offerta di Cristo.

Il sacrificio di Isacco (Gn 22, 1-14) è analogamente un preannuncio del sacrificio di Cristo e dell’oblazione eucaristica, così come il sacrificio del profeta Elia sul monte Carmelo, mentre sfida i profeti di Baal, (1Re 18, 1-40). Nella visione di Isaia in cui viene investito della missione profetica (Is 6, 1-7) si richiama una situazione liturgica dove il Signore è assiso in trono, circondato dai serafini, i quali cantano il trisagio, nel momento in cui viene presentato il sacrificio dell’incenso. Il sogno del patriarca Giacobbe che vide una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e gli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa. (Gn 18,12) e la profezia di Malachia «Poiché dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le nazioni e in ogni luogo si brucia incenso al mio nome e si fanno offerte pure, perché grande è il mio nome fra le nazioni. Dice il Signore degli eserciti» (Mal 1, 11) si riferiscono alla divina eucarestia.

Sicuramente la pasqua ebraica è l’avvenimento prefigurativo per l’eccellenza dell’eucaristia. Questa festa è un ricordo e un’incessante ringraziamento a Dio per la sua salvezza operata nei confronti degli ebrei liberati dalla schiavitù dell’Egitto. Gli eventi che si sono verificati durante la fuga, come dice san Giovanni Crisostomo, sono «misteri tremendi e terribili, ricchi di grande profondità. Se poi quei misteri sono così terribili nelle figure, quanto più nella verità… Ora, la verità è questa. Anche noi mangiamo la Pasqua, Cristo!»[15].

Tutti gli avvenimenti narrati nell’Antico Testamento hanno predisposto, nella pienezza dei tempi, la manifestazione della verità che è Gesù Cristo «per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9, 26), rivelando così la vera grandezza del mistero della divina economia. Perché Gesù Cristo è la sintesi di questo mistero e ciascun evento della sua vita trova nella celebrazione eucaristica: «ciò che si compie nel divino sacrificio immagine della salvifica passione, sepoltura e resurrezione di Cristo… e di tutta la sua salvifica permanenza tra noi ed economia nei nostri confronti»[16]. Nella Divina liturgia il celebrante, «stando davanti al divino altare celebra le sante operazioni di Gesù… In seguito… opera i divinissimi misteri e porta alla vista le cose celebrate»[17]. Innanzi a noi si svolge tutta la vita di Cristo, perché «l’intera mistagogia è come un’unica rappresentazione di un medesimo “corpo”, che è la vita del Salvatore»[18].

Poiché «gli occhi della fede vedono l’invisibile»[19], il luogo dove si officia l’eucaristia è la grotta dove è nato il Salvatore, dove ogni credente deve «accorrere a Betlemme (la chiesa), dov’è la casa del pane spirituale»[20]. Allo stesso modo con gli Apostoli noi prendiamo parte al banchetto mistico della Prima Cena, perché nella Divina liturgia «c’è la stessa cena alla quale Gesù prese parte con gli apostoli. Non c’è infatti nessuna differenza tra l’ultima cena e la cena dell’altare»[21]. «Questo è lo stesso cenacolo dove, allora, erano riuniti Gesù e gli apostoli; di là essi uscirono per andare al monte degli Ulivi»[22].

Il santo altare è il Golgota: «Questo (il mistero dell’eucaristia) è tipo di quello (il sacrificio del Golgota), e viceversa: poiché offriamo sempre lo stesso Cristo»[23] ed è anche il santo sepolcro, luogo della resurrezione: «Il mistero celebrato a Pasqua non è per nulla più grande di quello che ora stiamo celebrando. È un unico e medesimo mistero, come medesima e la grazia dello Spirito: è sempre Pasqua»[24].

La Divina liturgia è la Pasqua perpetua della Chiesa, l’inizio della nuova era che entra impetuosamente in quello vecchio in cui ci dona la presenza vera del Regno di Dio: «Non hai cessato di fare tutto quanto era necessario per ricondurci al cielo, e ci hai fatto dono del tuo regno futuro»[25]. Così Dio ci dona già in questa vita presente il suo Regno, facendoci passeggiare con Lui nel giardino alla brezza del giorno (cf. Gen 3,8): «Ha reso accessibile – percorribile – il cielo»[26] e cosa ancor più meravigliosa, ci concede di ospitare in noi Egli stesso, Gesù Cristo Dio re dell’universo.

Come abbiamo visto, nella Divina liturgia sono compresenti le realtà lontane e vicine, il principio e la fine, in cui si attualizza il mistero di Gesù Cristo. E come Gesù Cristo è «l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (Ap 22,13), allo stesso modo la Divina liturgia è, in Gesù Cristo, il punto di incontro dello spazio e del tempo e della loro trasfigurazione in uno spazio e in un tempo liturgico: «La Pasqua del Signore si avvicina, i tempi si uniscono, gli spazi si congiungono e il Verbo che ammaestra i santi si rallegra, lui, per mezzo del quale il Padre è glorificato, cui è la gloria nei secoli. Amen»[27].

Antonio Calisi


[1]  Giovanni Crisostomo, Omelie contro gli Ebrei, 3, 6, in Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1997, p. 62.

[2]  F. Halkin, Douze récits byzantins sur Saint Jean Chrysostome, Bruxelles 1977, 238.

[3]Commento al Vangelo di san Matteo, 82, 5, vol. 3, a cura di R. Minuti-F. Monti, Città Nuova, Roma 19692, p. 301.

[4]Orazione 2, 74, Gregorio Di Nazianzio, Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, 57.

[5]  Giovanni Crisostomo, Sul passo “Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato” (Is 6,1), 5, 1, PG 56, 131.

[6]  Ibid., PG 56, 130-131.

[7]  ID., Il sacerdozio, 6, cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1980, 136 (Collana di testi Patristici, 24).

[8]  Basilio Di Cesarea, Lo Spirito Santo, 35, a cura di G. Azzali Bernardelli, Città Nuova, Roma 1993, p. 134 (Collana di testi patristici, 106).

[9]Commento al Vangelo di san Matteo, 25, 3, vol. 2, a cura di R. Minuti-F. Monti, Città Nuova, Roma 19682, p. 15.

[10]  Teodoro Lo Studita, Prima Confutazione, 10, PG 99, 340C; cf. Teodoro Lo Studita, Contro gli avversari delle icone, Introduzione, traduzione e note di A. Calisi, Jaca Book, Milano 2022, p. 54.

[11]  Il passaggio è preso dalla liturgia di Basilio il Grande. Cf. Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Gribaudi, Torino 1988, p. 121 (Le grandi preghiere, 1).

[12]  Giovanni Crisostomo, Sulla Genesi, 17, 2, PG 53, 136.

[13]La fede ortodossa, 4, 13, a cura di V. Fazzo, Città Nuova, Roma 1998, p. 270 (Collana testi patristici, 142).

[14]  Giovanni Crisostomo, Su Melchisedek, 3, PG 56, 261.

[15]Commento alla Lettera agli Efesini, 23, 2, PG 62, 165-166.

[16]  Teodoro Di Andida, Sui simboli e i misteri della divina liturgia, 1, PG 140, 417A.

[17]  Dionigi Areopagita, La gerarchia ecclesiastica, III, 3, 12.

[18]  N. Cabasilas, Commento della divina liturgia, 1, 7, SC 4 bis, p. 63; cf. Cabasila, Commento della divina liturgia, a cura di M. Davitti-S. Manunzio, Edizioni Messaggero, Padova 1984.

[19]  Giovanni Crisostomo, Sul detto apostolico: «Dovete anche sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili» (2Tm 3,1), 2, PG 56, 272.

[20]Commento al Vangelo di Matteo, 7, 5, vol. 1, a cura di R. Minuti-F. Monti, Città Nuova 19672, p. 122.

[21]  Ibid., 50, 3, vol. 2, p. 321.

[22]  Ibid., 82, 5, vol. 3, p. 301.

[23]Commento alla Lettera agli Ebrei, 17, 3, PG 63, 131.

[24]Commento alla Prima Lettera a Timoteo, 5, 3, a cura di G. Di Nola, Città Nuova, Roma 1995, p. 1333 (Collana di testi patristici 124)

[25]  Dalla Anafora.

[26]Commento al Vangelo di Giovanni, 46, 3, PG 59, 261.

[27]A Diogneto, XXII, 8.