«Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954»

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Nell’imminenza del 10 febbraio scorso, Giorno del Ricordo, è uscito il libro «Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954». Edito da Mursia e prefato da Giovanni Stelli, l’autore è il dottor Marino Micich, direttore dell’Archivio-Museo storico di Fiume facente parte della Società Studi Fiumani.

Dottor Micich, prima di parlare del suo libro, ci parla di lei, delle sue origini?

Sono figlio di esuli dalmati, vissuto sin da bambino a Roma nei padiglioni dell’ex Villaggio Operaio dell’EUR diventato dal 1948 in poi Villaggio Giuliano-Dalmata, che accolse circa 1.800 esuli dalle terre istriane, fiumane e dalmate. Pertanto la vicenda dell’esodo giuliano-dalmata mi riguarda anche dal punto di vista biografico. Ho svolto poi studi storici, linguistici e letterari, laureandomi all’Università La Sapienza di Roma. Ho collaborato con riviste internazionali e poi dal 1991 ho iniziato la mia collaborazione con la Società di Studi Fiumani, diventando direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume e pubblicando numerosi saggi sulla storia dell’esodo giuliano-dalmata e dell’Adriatico orientale. Dal 2004 sono membro della Commissione di storici istituita presso la Presidenza del Consiglio per la concessione di una medaglia ai congiunti degli infoibati. Lo scorso anno per la mia attività di ricerca, ma anche per la promozione culturale con le terre fiumane oggi appartenenti alla Croazia, ho ricevuto il premio Eccellenze europee da Assotutela e Università ‘Nicolò Cusano. Infine, il 15 aprile scorso, presente il Ministro della Cultura, Alessandro Giuli, per la Saggistica, ho ricevuto il premio Caravella Tricolore-Natale di Roma proprio per il mio recente libro «Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’Esodo, 1943-1954».

Riguardo foibe ed esodo, in che cosa, in particolare, il libro inchioda a precise responsabilità i comunisti nostrani alleati di Tito?

Diciamo, innanzitutto, che nell’elaborazione del libro mi sono attenuto a un criterio di narrazione storica basato sulle scelte politiche fatte in Venezia Giulia dal Partito Comunista Italiano guidato da Palmiro Togliatti, in un periodo che parte dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio di resa incondizionata dell’Italia fatto dal generale Badoglio) e arriva fino al 1954, anno del ritorno definitivo di Trieste all’Italia. In quel periodo, dalla documentazione da me esaminata e in parte reperita presso l’Archivio del PCI depositato presso l’Istituto Gramsci, esisteva da parte del PCI di Togliatti una stretta alleanza con i comunisti jugoslavi guidati da Tito, che col passare del tempo diventò sempre più strategica. Da una parte il PCI e le Brigate partigiane Garibaldi presenti in zona giuliana portano avanti con estremo sacrificio la lotta contro il nazismo e il fascismo, dall’altra parte alcuni capi comunisti come Pietro Secchia e Luigi Longo non trascuravano la possibilità di stabilire a guerra finita, tramite un più vasto moto rivoluzionario appoggiato dai partigiani jugoslavi di Tito, un regime comunista anche in Italia. Le intenzioni e i piani di questi due importanti esponenti comunisti non erano però sempre appoggiate dal Segretario generale del PCI Palmiro Togliatti, il quale tutto sommato doveva rispettare, dopo la cosiddetta ‘svolta di Salerno’ e l’entrata del PCI nel II governo Badoglio (22 aprile 1944), il patto tra Stalin e gli Alleati occidentali stabilito a Jalta nel febbraio 1945. Con i patti di Jalta si stabilirono le nuove sfere di influenza in Europa a conflitto concluso e in relazione al futuro politico dell’Italia, essa sarebbe dovuta passare sotto l’influenza americana e non sovietica. Il PCI tra il 1945 e il 1954 si muoveva politicamente su un doppio binario, da una parte la lotta contro il nazismo e il fascismo dall’altra spingere a guerra finita verso una rivoluzione comunista in Italia, causando dissapori tra le varie parti in causa e nuove vittime. Il fattore ideologico divenne a un certo punto predominante nelle scelte tattiche e strategiche del PCI in Venezia Giulia rispetto all’interesse puramente nazionale italiano.

Lei afferma che, nello stabilire i nuovi confini italo-jugoslavi a danno dell’Italia, la strategia del PCI si inseriva in un progetto di rivoluzione comunista da estendere al resto d’Italia. Il tutto era in sinergia con i crimini in Emilia Romagna nel famigerato Triangolo della morte e con gli eccidi della Volante Rossa nel nord Italia?

Dai documenti esistenti nei vari archivi da me consultati, ma anche secondo storici affermati come Raoul Pupo e Gianni Oliva come anche i giornalisti Giampaolo Pansa e Giorgio Pisanò, la strategia del PCI di Togliatti era duplice come spiegato prima: da una parte sconfiggere i tedeschi e le forze della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, dall’altra parte portare avanti un progetto di rivoluzione comunista in Italia; pur nella consapevolezza che a Jalta, Stalin aveva lasciato l’Italia sotto l’influenza statunitense. Gli eccidi e i crimini commessi da parte di partigiani militanti comunisti in Emilia e in Veneto tra il 1945 e il 1946, non solo nei confronti di fascisti ma anche nei confronti del clero, di imprenditori e di militanti appartenenti ad altre forze politiche, rientrano nella logica rivoluzionaria che avrebbe portato l’Italia sotto una dittatura comunista.

Il suo libro prende in esame un periodo drammaticamente corposo che va dal 1943 al 1954. In tale periodo, precisamente nel 1948, si consuma dapprima una frattura fra il Comunismo sovietico e quello di Tito in seguito un riavvicinamento. In tali contesti quali atteggiamenti assume il PCI, vista la sua stretta osservanza filosovietica?

In questo periodo piuttosto lungo e complesso avvenne nel giugno 1948, l’allontanamento dei comunisti jugoslavi di Tito dal Cominform. Stalin non si fidava di Tito e delle sue tendenze egemoniche nell’intera Penisola Balcanica. Tito diventava sempre più una specie di concorrente per i sovietici e che bisognava ridimensionare. Il PCI di Togliatti rimase, tuttavia, allineato con Mosca e, pertanto, fecero lo stesso i militanti comunisti italiani autoctoni dell’Istria e di Trieste, ai quali vanno aggiunti circa 2.000 comunisti italiani giunti a Pola e a Fiume, tra il 1946 e il 1947, in gran parte da Monfalcone e dintorni (ma anche da varie parti d’Italia), trovandosi ben presto a mal partito col regime di Tito. Andati, questi militanti, con le proprie famiglie nelle terre istriane per rimpiazzare gli esuli e prendere lavoro nei cantieri navali e nelle scuole vennero, dopo l’abiura di Tito da parte di Stalin, gran parte arrestati e deportati nei campi di Lepoglava, Stara Gradiska e a Goli Otok in quanto sospetti di anti jugoslavismo ideologico. Molti di loro non tornarono più vivi dai lager di Tito. Solo da quel momento in poi Togliatti con il suo nuovo delegato per la Venezia Giulia, l’internazionalista Vittorio Vidali, difese l’autonomia di Trieste dalle mire annessioniste di Tito. In ogni caso, Togliatti e i suoi non chiesero nemmeno in quel momento storico favorevole all’Italia l’annessione del Territorio Libero di Trieste e così continuarono a farlo anche nel 1954 dopo la firma del Memorandum di Londra, che sancì il ritorno della città giuliana all’Italia. Trieste doveva rimanere autonoma per promuovere in futuro un esperimento politico di marca comunista…L’ideologia marxista nei comunisti italiani era più forte del sentimento di appartenenza alla Patria italiana.

Il Partito Socialista all’epoca alleato del PCI, anch’esso filosovietico, ha avuto delle responsabilità riguardo le foibe e l’esodo?

I socialisti italiani guidati allora da Pietro Nenni, in realtà avevano una posizione diversa dal PCI di Togliatti riguardo ai nuovi confini da stabilire tra Italia e Jugoslavia. Inoltre non risulta ad oggi alcuna responsabilità diretta dei socialisti nelle stragi delle foibe. La posizione di Nenni era quella di sostenere l’italianità dell’Istria occidentale e di Trieste, basandosi sui censimenti di allora, secondo i quali gli italiani risultavano essere la maggioranza in quei territori. Nel mio libro a pag. 101 metto in evidenza l’opposizione di Nenni allo scambio proposto da Togliatti e Tito di Gorizia, che doveva andare alla Jugoslavia, con Trieste. L’annuncio di tale proposta fu reso pubblico il 20 novembre 1946 e non ottenne fortunatamente successo, anzi si rivelò controproducente per il PCI. Con questi brevi esempi la posizione dei socialisti di Nenni sulla questione giuliana, appariva ben diversa da quella di Togliatti.

In ambito antifascista ed anche all’interno del PCI, vi fu chi prese le distanze dall’alleanza Togliatti-Tito?

L’alleanza tra Togliatti e Tito non fu certamente appoggiata dagli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. I democristiani, gli azionisti, i repubblicani e gli stessi socialisti presero a un certo punto le distanze dai comunisti italiani, quest’ultimi decisero già nel corso della fine del 1943 di sottoporre le proprie formazioni al comando del Movimento Popolare di Liberazione Jugoslavo. Si arrivò poi tra il 7 e il 15 febbraio del 1945 al compimento della strage di Malga Porzus, dove il capo della Brigata comunista Garibaldi-Natisone, Mario Toffanin, diede l’ordine di imprigionare e poi di liquidare i partigiani bianchi, non comunisti, della Brigata Osoppo che non volevano sostenere il piano di annessione jugoslavo. Tra gli uccisi Guido Pasolini, fratello del regista Pier Palo Pasolini e Francesco De Gregori (detto Bolla) zio del famoso cantautore romano che porta il suo stesso nome. Ci furono dopo altri episodi di contrasti veri e propri tra le due Resistenze.

L’azione del PCI in quelle terre e la conseguente congiura del silenzio su foibe ed esodo costruite ed imposte nei decenni non possono essere stata solo opera dei comunisti di casa nostra. Quanto hanno inciso le coperture istituzionali sulla vicenda perché il tutto venisse silenziato. E perché le istituzioni coprirono quanto avvenuto?

Riguardo al silenzio sulle foibe e sul grande esodo degli oltre 300.000 istriani, fiumani e dalmata, seppur con i dovuti distinguo, c’è anche la responsabilità delle altre forze politiche. Dal 1945 fino al 1954 sia i democristiani di De Gasperi e sia le altre forze politiche come i liberali e gli azionisti denunciavano i crimini del regime di Tito e cercavano di dare dignitosa accoglienza agli esuli giuliano-dalmati. Tuttavia, per una serie di eventi internazionali, tra cui il già ricordato allontanamento dei comunisti jugoslavi dal Cominform nel giugno 1948 che produsse un avvicinamento strategico del regime jugoslavo di Tito verso gli Stati Uniti e la NATO, si preferì in generale attenuare i toni polemici nei confronti del dittatore jugoslavo, perché poteva diventare al momento opportuno un valido alleato contro i sovietici. Nel clima di Guerra fredda il ruolo di Tito divenne senz’altro importante e successivamente l’inserimento della Jugoslavia nel sistema dei Paesi non allineati aumentò ancor di più la considerazione nei suoi confronti. Il risultato finale di tali situazioni fu l’emarginazione a livello mediatico e politico della tragedia dell’esodo giuliano-dalmata e delle vittime delle foibe per lunghi decenni; fino a quando nel 1991 la ex Jugoslavia iniziò ad implodere e nel 1996 scomparve definitivamente, per lasciare spazio alle repubbliche di Slovenia, Croazia, Bosnia, ecc. Solo da quel momento in poi rinacque l’interesse nei confronti della storia taciuta degli esuli con il suo bagaglio di grandi sofferenze e di ingiustizie.

Senza i documenti è difficile documentare la Storia. Nella ricerca da cui è scaturito il libro, in quali difficoltà si è imbattuto?

La storia va sempre documentata, altrimenti diventa libera narrativa, una sorta di fiction. Io per scrivere il mio libro ho avuto la possibilità di accedere a documenti di prima mano conservati presso l’archivio del PCI, custoditi dall’Istituto Gramsci, altri pressi l’Archivio Centrale dello Stato, assieme a documenti in lingua croata reperiti negli archivi di Zagabria e di Fiume-Rijeka. Ho avuto una certa disponibilità e fiducia in quelle istituzioni a reperire la necessaria documentazione.

Il Giorno del Ricordo rischia di diventare un rituale stantio che va fatto perché deve essere fatto. Cosa si può fare per evitare tale rischio?

Bisogna incrementare nuovi studi e ricerche e inserire la storia complessa del nostro confine orientale nei libri di testo scolastici. Solo così si può creare una più vasta conoscenza e una percezione più adeguata nella cittadinanza dei contenuti storici e dei valori etici che sono alla base del Giorno del Ricordo.

Lei che pensa che con il Giorno del Ricordo la Repubblica italiana si sia auto assolta ed abbia fatto i conti con la Storia riguardo silenzi ed omertà su foibe ed esodo?

Io penso che la Repubblica Italiana abbia intrapreso un giusto cammino verso il rispetto della storia di tutti i suoi cittadini e quindi anche degli esuli giuliano-dalmati, ma c’è ancora molto da fare soprattutto nel mondo delle Università e delle Scuole. In questo senso va segnalato che la legge 92/2004 è stata ampliata nei suoi contenuti e che il governo ha disposto circa un milione di euro per favorire i viaggi di studi delle scuole italiane nei luoghi simbolo di una storia lungo negata come la foiba di Basovizza e altre testimonianze di cultura e civiltà italiane presenti a Trieste e in Istria. Non resta che sperare…

Michele Salomone

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