Un quartetto di poeti per l’estate
Gabriele D’Annunzio dedicò all’estate, intesa come esplosione di vita che fluisce, come abbandono e immersione nella natura vivente, un intero libro, l’Alcyone, pubblicato nel 1903, che può considerarsi una sorta di diario poetico di una lunga estate marina trascorsa in Versilia in compagnia della donna amata.
Nella poesia sopra riportata, composta di tre strofe di endecasillabi con assonanze irregolari e intitolata Stabat nuda Aestas, l’estate viene personificata ed appare al poeta come una donna sensuale che corre nuda tra le pinete e il mare per perdersi completamente nella immensità delle natura, tra «le sabbie e l’acque».
Il titolo è tratto da un emistichio di un verso delle Metamorfosi di Ovidio: «Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat» (Stava nuda l’estate e portava ghirlande di spighe). Ma alla staticità del verso di Ovidio in D’Annunzio subentra una rappresentazione mossa e dinamica: l’estate appare al poeta come una donna «sfuggente e misteriosa» che «continuamente trascolora negli aspetti delle cose della natura… fino a che vi si dissolve totalmente, rifluendo nella nudità del paesaggio» (Federico Roncoroni). Si può parlare, non a torto, a questo proposito di una comunione «mistico sensuale con la natura».
È questa, insieme a La pioggia nel pineto, a Meriggio, a La sera fiesolana, a I pastori, una delle grandi poesie che fanno dell’Alcyone un capolavoro della poesia di tutti i tempi.
D’Annunzio fu l’ultimo cantore d’una felice adesione alla vita, prima della grande crisi che di lì a poco avrebbe investito uomini e scrittori del XX secolo.
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Una condizione esistenziale di sradicamento, di crescente disagio, di mancanza di certezze caratterizza l’uomo del ‘900. Esemplari, per meglio cogliere il mutamento avvenuto nella cultura europea a partire dalla prima guerra mondiale, sono i versi di Meriggiare pallido e assorto, che nel 1916 il giovane Eugenio Montale dedicò all’estate, poi confluiti nella raccolta Ossi di seppia (1925).
Montale esprime il proprio stupore di fronte ad un universo incomprensibile, anche se, nell’assenza di un senso, di una verità gratificante, sembra emergere l’attesa di qualche cosa, di un miracolo, che possa rivelare un varco, il punto debole del meccanismo. Gli ossi sono relitti, abbandonati dal mare durante la risacca. E’ evidente il valore simbolico delle cose, come pure del paesaggio, che è quello della natia Liguria, arido, secco, bruciato dal sole, ma vivificato dal mare.
L’estate di Montale, al contrario di quella dannunziana, non è segnata dalla pienezza dei sensi e dall’eros, ma da una riflessione dolorosa sulla vita e sull’impossibilità di superare i limiti (i cocci di bottiglia). Non a torto Guido Ceronetti nei suoi Pensieri del tè osservava che «Montale non emana calore, non è erotico, è una grande, lucida, non ustoria lente». E i suoni duri e secchi dei versi rappresentano l’espressione fonica della condizione umana e della difficoltà di vivere.
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Alla ricercata musicalità dei versi di D’Annunzio e alla voluta asprezza dei versi di Montale si contrappone la composta naturalezza dei versi di Vincenzo Cardarelli. I suoi testi raccolti in Poesie nelle tre edizioni del 1936, 1942 e 1958 hanno forma piana, discorsiva, uniscono liricità e meditazione sulla scorta dell’amato Leopardi, alla cui perfezione stilistica il poeta di Tarquinia si rifà. I temi ricorrenti nelle sue liriche sono l’avvicendarsi delle stagioni descritte nella loro cosmica fisicità, lo scorrere del tempo, la mutevolezza delle cose, lo sfiorire dell’adolescenza e della bellezza, il vagheggiamento dell’infanzia e del paese natio.
Anche in Cardarelli, come già in D’Annunzio, si avverte fortemente l’eco della filosofia poetica di Nietzsche. Ma se D’Annunzio coglieva del filosofo tedesco la nozione di superuomo, Cardarelli si rifaceva piuttosto alla suggestione dell’eterno ritorno.
Il paesaggio estivo viene descritto dal poeta nell’ora del meriggio, che per i Greci antichi simboleggiava, per il senso di sospensione della vita che ad esso si accompagna, la pienezza misteriosa dell’essere. «Non è forse perfetto il mondo in questo momento?» si chiedeva il filosofo dell’eterno ritorno nel capitolo dedicato al meriggio della IV parte del Così parlò Zarathustra. E proseguiva: «questa è l’ora segreta e solenne, in cui nessun pastore suona il flauto» e in cui «ride un Dio».
Il momento della pienezza coincide col momento della perfezione del mondo e sembra rimandare ad una «spiritualità sovratemporale» (Sossio Giametta), che, a ben vedere, non è altro che la beatitudine di cui ci parlano il cristianesimo e le altre religioni.
Dietro la «distesa estate» del poeta si intravede l’inesausta aspirazione dell’uomo alla felicità.
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Spigolando tra le varie poesie dedicate all’estate presenti nella raccolta Le stagioni (1998) del poeta Giuseppe Conte, ci soffermiamo su questa intitolata Poseidone.
Anche il poeta ligure personifica l’estate e si rivolge a lei confidenzialmente con un tu, ma, a differenza di Gabriele D’Annunzio e segnatamente del suo Meriggio, mette in risalto l’ambiguità dell’estate, la sua bellezza e la sua tragicità insieme, la sua pienezza e la sua oppressione, il paradosso di una forza che fa nel contempo sfiorire la rosa e maturare le vigne.
Conte nei suoi versi allude evidentemente a quel doppio volto della vita – gioia e dolore – investigato dalle filosofie dell’esistenza e plasticamente raffigurato da Nietzsche nella feconda opposizione apollineo-dionisiaco.
Il filosofo dell’eterno ritorno già nella sua prima opera, La nascita della tragedia, aveva infatti osservato che per i Greci antichi «la loro intera esistenza con tutta la sua bellezza e misura era piantata su un fondo nascosto di dolore e di conoscenza che lo spirito dionisiaco rimetteva in mostra». E a lui faceva eco il romanziere e filosofo esistenzialista Albert Camus che in Estate, una raccolta di brevi saggi scritti tra il 1939 e il 1953, scriveva: «Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente».
La poesia di Conte si nutre di questo pensiero classico e mitico che, a buon diritto, possiamo definire mediterraneo.
Sandro Marano